Tutto quello che vuoi, o forse… tutto quello che sei

Un film che racconta una relazione molto speciale, capace di riscrivere il passato ma non solo. Quanto è importante lo sguardo che riconosce e accetta, al di là dei pregiudizi dei ruoli e delle etichette?

Un’improbabile amicizia tra l’ultraottantenne Giorgio, poeta dimenticato che ha fatto la Seconda Guerra Mondiale, e Alessandro, giovane ventenne senz’arte né parte. Un classico, che riecheggia il più celebre film francese Quasi amici: Giorgio è affetto da un principio di Alzheimer, che lo porta a rivivere, come fossero attuali, episodi della propria vita giovanile, durante la guerra; Alessandro è scapestrato, nullafacente, e trascorre la maggior parte del proprio tempo con tre amici, che come lui si muovono ai margini della società, sul confine tra legale e illegale.

Tra i due inizia, quasi per caso, una relazione intima e intensa: Alessandro, inizialmente, fa da badante a Giorgio, accompagnandolo nelle sue passeggiate e aiutandolo nella vita quotidiana. Poi, piano piano, il passato dell’anziano prende vita, fino a utilizzare “le gambe” del presente per essere recuperato, ricordato, reso vivo e vitale. Il giovane, insieme ai suoi amici, inizierà con Giorgio un insolito viaggio in macchina per cercare un misterioso tesoro. E sarà proprio il passato, e con esso la poesia, a dare nuova linfa ai componenti della piccola banda senza futuro. Ma qui mi fermo con lo spoiler!

Questa pellicola, Tutto quello che vuoi, non è solo un racconto sulla memoria, che non va perduta: è anche, e forse soprattutto, un film sul riconoscimento delle reciproche diversità («io manco sapevo che esistevano ancora i poeti!», dice, a un certo punto, Alessandro). Un riconoscere in grado di andare oltre il pregiudizio, che irretisce ciascuno in ruoli ed etichette, sociali e diagnostiche; capace di attivare, come dice in un’intervista il regista Francesco Bruni, qualcosa di speciale: «uno sguardo particolare sull’altro».

Lo sguardo di amore incondizionato che noi, professionisti della relazione d’aiuto conosciamo bene, perché è l’ingrediente che permette alla persona di affidarsi, individuarsi e cambiare.

Sono molto legata alla dimensione dello sguardo, come madre, come psicologa, come formatrice, ma anche come passeggera di treni e metropolitane! È proprio lo sguardo senza giudizio, che attiva in me la curiosità per l’Altro, per la sua storia unica e irripetibile, per il suo modo di pensare e comportarsi.

Non sto parlando del guardare, atto che rimanda al giudizio (quando eravamo piccoli, ci dicevano «non guardare le persone, non sta bene!»): lo sguardo racchiude in sé di più.

Se ne cerchiamo l’etimo scopriamo che significa sorvegliare, vigilare, proteggere, aver cura, osservare e custodire; insomma, a parer mio, è un modo di osservare, ascoltare, raccogliere, tenere insieme e – di centrale importanza – restituire narrazioni, emozioni, vissuti.

Non a caso, rileggendo Winnicott, alla base della costruzione del Sé c’è quella speciale relazione madre-bambino, fatta proprio di sguardi: «La madre guarda il bambino e il modo in cui ella appare è in relazione a ciò che vede nel bambino», cosicché lui può ritrovare e “conoscere” se stesso come in uno specchio.

A osservarne la ricchezza di significati, attivare uno sguardo incondizionato sembra fondamentale, perché consente, nella clinica, ma anche – ci dicono Giorgio e Alessandro – nella vita, di ritrovare e recuperare un filo rosso che a volte va smarrito, quello che ci ricorda chi siamo.

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