Più che educare, la scuola del sospetto, del controllo e dell’umiliazione spegne la coscienza critica
Aula scolastica in presenza, mese di ottobre. Una mia paziente, mi racconta un episodio che l’ha molto commossa. La figlia prende un 4 in matematica. Fa seconda media e da qualche tempo è in difficoltà. La mamma scopre il voto prima che la figlia rientri a casa, guardando il registro elettronico. Mentre pensa a come accoglierla e a cosa dirle, la mente torna alla sua totale incompetenza in materia e viene assalita dall’ansia che, come lei, anche la figlia possa iniziare a odiare la matematica, ritenendola incomprensibile e ostica. Appena la ragazza entra, la mamma la guarda e si sorprende a fare un’unica, ragionevole cosa: la abbraccia. Le dice anche che le dispiace, ma ha un’insufficienza grave. La ragazza appare sorpresa dalla reazione della madre, ma da quel momento, si alleano a comprendere come superare la crisi delle frazioni, del minimo comune denominatore e dei suoi simili. Ora che siamo a fine anno, la ragazza ha superato pienamente l’ostacolo che si era presentato.
Dad, aula virtuale: interrogazione in un liceo veronese. L’allieva quindicenne appare troppo preparata e così, sulla sfiducia, viene invitata dalla sua professoressa a bendarsi gli occhi, durante l’interrogazione. I suoi compagni riprendono la scena e una foto della ragazza bendata fa, in men che non si dica, il giro del web, sollevando indignazione, ma anche, sorprendentemente, sostegno da parte di alcuni! Gli accertamenti sono in corso, ma pare che altri ragazzi in classe, precedentemente, siano stati sottoposti al medesimo trattamento.
L’immagine della benda sugli occhi, personalmente, mi spaventa. In primo luogo, perché è un gesto onnipotente, perpetrato da chi detiene il potere all’interno della relazione; in secondo luogo perché è una richiesta impotente, da parte di chi non si rivela in grado di gestire la relazione.
Non sto parlando solo della possibilità di costruire fiducia; dal mio punto di vista l’invito di questa insegnante è figlio dell’incapacità a tollerare il dubbio; dubbio sull’onestà dell’altro, ad esempio, o sulla propria capacità di trasmettere contenuti. La reazione all’intolleranza nei confronti dell’incertezza non può che essere il controllo serrato, che possa far svanire ogni presunzione di colpevolezza, costi quel che costi.
Entrare in relazione, quale terza via rispetto a questi due poli, è una scelta vulnerabile, perché ci costringe, sì, ci obbliga, a domandarci, costantemente, come stanno andando le cose fra noi e come possiamo dunque muoverci l’uno nei confronti dell’altro. Ci ricorda, inoltre, che non è possibile conoscere mai e fino in fondo cosa passi per la testa dei nostri interlocutori.
La scuola del sospetto, della sfiducia, della delazione, del controllo e dell’umiliazione – che non è cosa di tutti i giorni, ma anche in piccoli incidenti minori, accade – è una scuola che più che educare, ammaestra, sorveglia e spegne la coscienza critica.
“La vera autorità dell’insegnante sta nella forza di una presenza, si impone senza imporre niente quando le sue proposte suscitano l’attenzione e l’interesse”: le parole di Edgar Morin, (Educare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione), fanno da eco a quelle di Martin Buber, il filosofo che si è occupato della relazione dialogica, anche all’interno del contesto educativo: chi insegna “non ha bisogno di possedere nessuna delle caratteristiche di perfezione; ma ci dev’essere davvero” (Discorsi sull’educazione).
Ma che cos’è questa presenza, questo esserci davvero di cui si parla? Un abbraccio, sempre e comunque, come quello della mamma, che ho citato in apertura?
Io credo di no, che la presenza non sia solo questo, ma, in primo luogo, sapersi ascoltare, saper ascoltare l’altro, per limitare i danni che può fare la paura di entrare in relazione. Esserci è, dunque, a mio parere, un processo, un percorso sostenuto dalla reciprocità, che sappia dar vita ogni volta ad una risposta non scontata e preordinata.
La presenza, infine, è in grado di contenere ed interrogare il dubbio, resistendo alla tentazione di sopprimerlo, perché, così facendo, sopprime di fatto l’altro.
già pubblicato su @fuoritestata.it