Chi chiede un aiuto psicologico ha spesso fretta: chiede di andare di corsa, di fare presto, certamente nel desiderio di togliersi rapidamente il fardello dell’inquietudine che opprime
Un anziano Sherlock Holmes investiga su un caso accaduto anni prima e ancora non risolto. È una ricerca faticosa la sua: ha 93 anni, vive solo, o meglio non può più confrontarsi con il valido Watson e si è ritirato in campagna, dove tenta di ricostruire i dettagli del caso, benché la memoria deteriorata ostacoli il suo lavoro.
Una scena di questo film, Mr. Holmes, il mistero del caso irrisolto, rivela a un certo punto un doloroso episodio: è Holmes stesso che parla, “C’è stata una donna una volta, un quarto d’ora di conversazione, le serviva il mio aiuto. Aveva bisogno di essere compresa da qualcuno. Da me”. Nel pieno delle sue facoltà intuitive e razionali, Holmes offre alla donna una lettura precisa, dettagliata della sua situazione e lei poche ore dopo si toglie la vita. È lo stesso Holmes a spiegare che “Identificando con tanta chiarezza le ragioni del suo tormento” aveva dato, in qualche modo, il via libera alla donna per mettere in atto un intento già presente in lei.
Spesso vado con la mente a questa scena, soprattutto ultimamente, poiché nel mio ruolo di psicologa mi sento dire sovente, più o meno, “È possibile allungare il tempo di seduta, così scopro più cose?”, o anche, da un’altra prospettiva, “Potrei risparmiare un anno di sedute facendo questo o quello e starei meglio più velocemente!”. Incontro, insomma, persone che mi chiedono di andare di corsa, di fare presto, certamente nel desiderio di togliersi rapidamente il fardello dell’inquietudine che le opprime. È in queste occasioni che inizio a rallentare, a non dare anzitempo la mia lettura delle cose, a non offrire pillole di (presunta) verità, sapendo bene che poi sarebbero indigeste.
Cerco invece di prendermi cura della nostra relazione: non solo dell’altro che è seduto di fronte a me, ma di noi due insieme, tessendo molto lentamente un legame che permetta di attraversare le regioni più oscure del nostro animo multiforme.
A chi mi chiede di partire in Ferrari, rombando e accelerando, rispondo invitandolo a indossare scarpe comode, per arrivare da qualche parte a piedi.
Può darsi che non sempre io riesca, perché la tentazione di apparire performanti riguarda i grandi come Holmes e i piccoli, però è un terreno che sorveglio. Il rischio che sento non è unicamente quello tragico descritto dalla scena del film, ma può tradursi, per esempio, nella rottura dell’alleanza, nel possibile abbandono della relazione o nella richiesta di una fusionalità (“Possiamo non lasciarci mai?”) rassicurante ma troppo piena, senza spazio tra me e l’altro. Modi diversi per dire, anche legittimamente, che non si è pronti a narrare una storia che riguardi sé, anche di poco differente.
Non sto facendo un elogio della lentezza in realtà, anche perché parlerei piuttosto di un buon ritmo da trovare; ciò che vorrei dire è che, lenti o veloci, non si è soli. Quello che conta è costruire un legame sufficientemente affidabile, in carne e ossa, che attraverso la parola (dia-logo) e lo sguardo renda almeno possibile nominare scomode cose. Allora sento di fare mie le parole di Holmes, quando si chiede cos’altro avrebbe potuto fare o dire a quella donna. Tra le varie possibilità pronuncia questa frase forse un po’ misteriosa: “Andiamo a stare soli, insieme”. Io immagino di leggerla così: partiamo separati e legati, individui che stanno in relazione, senza che la ferita dell’uno (perché anche performare a tutti i costi è il “prodotto” di una ferita) abbia la meglio su quella dell’altro.
già pubblicato su @Fuoritestata