In una metafora in cui estraneità e identità perdono i loro chiari confini perché l’una ha, in qualche misura, bisogno dell’altra, sembra di assistere al crollo di qualche certezza: chi è straniero? Cosa vuol dire identità? Ma soprattutto: la seconda ha senso senza la prima?
L’Intruso è un piccolo libro autobiografico di Jean-Luc Nancy: quaranta pagine in cui il filosofo francese fa di una sua lunga e dolorosa esperienza, il trapianto di cuore, una metafora, che interroga e al tempo stesso fornisce possibili risposte. L’intruso – che oltre al concetto di estraneità introduce anche quello di “cacciar dentro” a forza – è proprio il cuore nuovo, l’organo che è, da un lato, straniero e dall’altro salvezza per la vita stessa. Per poter accogliere in petto il cuore di un altro e non incorrere nel pericolo del rigetto, però, occorre abbassare clinicamente le difese immunitarie. Non è scontato accogliere l’altro, lo straniero, sembra dirci Nancy; ma è necessario, se si vuole sopravvivere.
La storia non finisce qui: abbassare le difese immunitarie, grazie all’utilizzo della ciclosporina, provoca la comparsa di alcuni virus da sempre sopiti nel corpo di Nancy (come il citomegalovirus) e, poi, addirittura un cancro, per il quale, occorreranno cicli di chemioterapia e radioterapia. Come dire: per accogliere l’altro, dobbiamo divenire estranei anche a noi stessi. Ammette Nancy: “Sono io stesso il primo straniero, da sempre, già prima del trapianto: è questo che mi incuriosisce”.
In una metafora in cui estraneità e identità perdono i loro chiari confini perché l’una ha, in qualche misura, bisogno dell’altra, mi sembra di assistere al crollo di qualche certezza: chi è straniero? Cosa vuol dire identità? Ma soprattutto: la seconda ha senso senza la prima?
Anche la lingua ci restituisce una significativa ambivalenza, se pensiamo che “ospite” e “ostile” derivano dalla stessa radice etimologica (hos), tenendo dunque insieme, in un ipotetico seme da cui nascono le parole, due aspetti opposti: l’ospitalità come accoglienza dello straniero e l’ostilità come inimicizia verso ciò che è estraneo.
Alle luce di queste riflessioni e incuriosita dalla complessità delle cose, che respinge definizioni manichee ed esaustive, torno al libretto di Nancy, mentre leggo, in questi giorni, una notizia Ansa: dodici Paesi, Austria, Grecia, Ungheria, Polonia, Danimarca, solo per citarne alcuni, hanno chiesto esplicitamente, in una lettera indirizzata alla Commissione e al Consiglio europeo, di finanziare la costruzione di muri, presso le rispettive frontiere, per bloccare i flussi migratori, pur comprendendo la drammaticità e l’urgenza di alcune situazioni, come, per esempio, quella afgana.
Lontana da ragionamenti politici, la richiesta mi ha colpito, perché se da una parte viene evidenziata la comprensibile necessità di condividere le difficoltà legate all’accoglienza, dall’altra sollecita la fortificazione dei confini, attraverso la costruzione di muri, che, una volta creati – la storia ce lo ha già insegnato – sono poi difficili da smantellare. Ed è in effetti la parola “muro” ad aver attirato la mia attenzione: nella sua essenza così solida, indiscutibile, definitiva e, soprattutto, duratura.
Certo, “identità equivale a immunità” pensava Nancy; fino a quando non si è reso conto che la sua stessa vita sarebbe dipesa dal contrario, o meglio dalla difficile arte di trovare un equilibrio complesso tra misure difensive e apertura.
La tentazione del muro che separa e divide noi da loro è quasi irresistibile, perché d’altra parte tollerare di essere estranei persino a se stessi, sembra una sfida troppo grande e senza dubbio faticosa, se significa abbracciare l’incertezza di una risposta che non è esauriente, che non mette a posto le cose in fretta e una volta per tutte.
Noi e loro. A me sembra che l’elemento che appartiene a entrambi sia la paura: di essere invasi, di perdere tutto, di non avere più alcun punto di riferimento, di rischiare la propria vita e quella delle persone care. Forse questo denominatore comune non va dimenticato, quando cerchiamo le nostre parziali, umane soluzioni.
Terrei a mente ancora due cose: la prima è una calzante definizione di empatia: “L’atto attraverso cui ci rendiamo conto che l’altro è oggetto di esperienze come lo siamo noi […] Capire quel che sente, vuole e pensa è l’elemento essenziale della convivenza umana” (Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Laura Boella, Raffaello Cortina Editore). E la seconda è che in questa dimensione, l’incontro con l’estraneo, lo straniero non può far altro che trasformare anche me.
gia pubblicato su @fuoritestata