Tra onnipotenza e ritiro, guardiamo alle oscillazioni e ai dubbi delle generazioni più giovani, da genitori o da professionisti della relazione d’aiuto. Ma siamo in grado di essere per loro quegli adulti “sufficientemente buoni” di cui hanno bisogno?
Vorrei essere invincibile.
(…)
Sono tutte le difficoltà che ho superato.
In queste battute, pronunciate da una ragazza – che chiamerò Ginevra – in apertura e a conclusione di un percorso di crescita in gruppo, ho intravisto una crepa da cui traspare il malessere di tanti ragazzi e ragazze oggi e, insieme, la direzione di uscita.
Da un lato c’è la proiezione di un’onnipotenza immaginata: ci dice la paura, la difesa, l’ombra di un dissidio interno, il tormento di una ferita ancora aperta, finanche l’irriverenza di fronte all’idea del limite. Tutto secondo la nota narrativa dell’adolescenza. Sull’altro versante affiora la consapevolezza che ogni inciampo ha reso il passo più avvertito, ogni pietra caduta dal sentiero ha aggiunto un pezzetto di solidità all’edificio della propria storia in costruzione. Soprattutto, le difficoltà che la prima frase presumeva senza dirle, nella seconda sono nominate quali parti integranti del sé. E se il mito dell’invincibilità si disegna entro la traiettoria del conflitto – per volersi invincibili si deve temere un attacco – la svolta evolutiva non prevede la pace. Vi si coglie piuttosto solo un indizio di stabilità, che paradossalmente poggia sulle debolezze di ieri. Non c’è quiete, nella chiusa di Ginevra. E per fortuna. Perché la giovinezza contiene i fremiti della primavera e ha bisogno della lotta, dunque del confronto, della contraddizione e della pluralità, per compiersi.
Ecco. Potremmo chiederci questo: lasciamo che i giovani si misurino con la necessità del conflitto? Siamo madri, padri, educatori sufficientemente buoni – direbbe Winnicott – per dosare gratificazione e frustrazione, sufficientemente credibili perché chi ha meno anni di noi possa darci fiducia e sufficientemente autorevoli affinché il campo del conflitto mantenga all’orizzonte quelle regole, tacite o esplicite, che tutelano chi sta combattendo per nascere a se stesso? Oppure preferiamo per i ragazzi la narcosi della condiscendenza, nelle sue proteiformi apparenze: il divertimento sregolato, le sostanze, gli acquisti che bruciano tutte le voglie, i farmaci (il numero dei ragazzi che ostentano il ricorso ad ansiolitici, ipnoinducenti e antidepressivi è in crescita), i facilitatori dell’apprendimento a ogni segnale di fatica?
Sarei tentata di propendere per una terza ipotesi. E non solo in virtù delle tante ragioni esplorate anche sulle pagine di questo giornale. Certo, la resistenza a opporre un rifiuto a un figlio, magari unico e tardivo, per timore che questi “ritiri l’amore”, è diffusa. La scomparsa dei riti di iniziazione, ultimo fra tutti l’esame di maturità, descritto nei recenti dettati del Ministero dell’Istruzione come un sereno colloquio tra il candidato e la commissione, ha sicuramente fatto la sua parte.
Il problema però è che anch’io, cedendo alle sirene che cantavano una facile pacificazione, ho rischiato di azzerare nel mio lavoro con i giovani quante più tensioni possibile, specie subito dopo il lockdown pandemico. Non ho inquadrato quelli che Sartre chiamava coefficienti di avversità – gli elementi di sfida che in ogni situazione promuovono la crescita – come fattori abilitanti. In loro ho visto soprattutto ostacoli. E alla mia inerzia ha fatto eco l’inerzia delle persone che accompagnavo. Quando ho corretto il tiro, il conflitto negato ha ritrovato diritto di cittadinanza e con lui sono emerse, nello spazio protetto e disciplinato della relazione d’aiuto, le sue potenzialità generative. Le due frasi di Ginevra hanno queste premesse. Ogni nascita infatti presuppone il travaglio, così come ogni difficoltà superata contiene l’aspirazione originaria a essere invincibile e a non farsi toccare dal dolore.
Restituire dignità e argini al conflitto mi pare una questione importante oggi, per evitare che il conflitto rimosso torni e mostri i suoi aspetti distorti e distruttivi, come le cronache raccontano.
Oltre settant’anni fa Rollo May individuava almeno tre conflitti, a loro modo universali, che marcano il “pellegrinaggio per diventare sé stessi”. Mi soffermo solo sul primo: la dialettica tra spinta all’approvazione e spinta all’affermazione, in un dondolio tra le immagini interne di vita e morte, dove morte e vita sono oggetti di fascinazione e di paura insieme.
Nell’universo giovanile che ho incontrato la morte appare simbolicamente rappresentata dai due poli della stasi e del movimento senza freni: da un lato l’unione fusionale con la propria stanza, il proprio strumento musicale, i propri giochi virtuali, dall’altro la rutilante ricerca di sensazioni forti ed esperienze estreme in rapida successione. La vita, per converso, è più esigente e contempla anche zone grigie: chiede lo strappo e opera ricuciture, sprona al nuovo e trattiene il ricordo dell’infanzia, vuole il movimento e allo stesso tempo ne traccia i confini, bilancia azione e riflessione. Quasi sempre chiama a gestire il dissenso. Tutte cose difficilissime da maneggiare. Non stupisce che si propenda per la morte, simbolicamente intesa: sembra implicare meno impegno.
Il nostro compito di adulti, forse, sta nel riuscire a rendere più attrattiva la vita. Nel testimoniare che ne vale la pena. Nell’aiutare ad assumere le asperità dell’esistenza e a coglierne le opportunità per sviluppare quel telos, ossia quel fine inscritto nella nostra natura singolare, che può compiere ciò che è buono per noi senza danneggiare gli altri. Combattere per i giovani, allora – in famiglia, a scuola, nelle dinamiche dell’aiuto e della cura – significa proporre modelli di relazione dove l’obiettivo dell’autonomia è integrato nell’etica del legame, per dirla con Benasayag. Qui le difficoltà sono riconosciute, il conflitto è accettato e respira insieme al desiderio, dunque a una mancanza che non si colma, ma resta a orientare il cammino. Auspicabilmente nella direzione del sole. Siamo all’altezza di tutto questo?