Dov’è mia moglie? Cosa è successo? Perché sono solo?
Domande semplici, ripetute a ritmo incalzante, finché i singoli interrogativi si confondono in un’unica invocazione disperata. Salvami e riportami a casa.
Sono passati mesi da quando ho affrontato in un’aula di formazione il tema del declino cognitivo, figura estrema della fragilità. Ora costeggio l’argomento senza il parabordo del ruolo professionale. Sono in visita a un centro diurno per anziani con deficit di memoria ed è questa domanda triplice – Dov’è X? Cosa è successo? Perché sono solo? – che più di ogni cosa impressiona la mia sensibilità, all’inizio. In lei mi sembra si cristallizzi l’atmosfera, come se tutti gli ospiti, oltre la confusione che opacizza la mente, fossero con chiarezza tra loro solidali. Complici nell’essere atopos, letteralmente senza luogo (dov’è la persona che riconosco? Senza di lei non c’è per me un posto abitabile), nello smarrimento (cosa mi è accaduto?), nell’abisso di un isolamento che è paradossalmente popolato, ma incapace di dare conforto, e per questo ancora più straniante (perché sono solo…?).
Gli operatori chiamano ognuno per nome e tentano di colmare la domanda. Sono naturalmente consapevoli che la risposta cadrà quasi sempre nel vuoto, perché dall’altra parte non c’è più la rete del ricordo a trattenerla. E’ andata perduta la capacità della mente di riportare nel cuore (“cor” è il nucleo etimologico del verbo “ricordare”), e quindi di incorporare una verità. Sanno anche però che le persone di cui si prendono cura hanno bisogno di una voce per umanizzare l’assenza e renderla sopportabile. Così rilanciano le parole che vorrebbero rassicurare, come il bambino raccontato da Freud rilancia il rocchetto, facendolo scomparire e riapparire, perché ancora non ha integrato l’immagine della madre e a ogni separazione da lei anticipa lo strazio della sua morte. In fondo la sofferenza, insieme all’amore nei suoi primi bagliori, comporta sempre una forma di regressione.
Freud ci dice anche che senza oblio non potrebbe esserci la vita. Là dove l’oblio si allarga e pare fagocitare la vita, però, la prima reazione è chiedermi cosa resta. Poi passano i minuti e vedo emergere dalla nebbia dei pensieri di alcuni ospiti tante piccole isole di senso. Sono lingue di terra scampate al naufragio, che resistono compatte. Non hanno il collante della memoria cronologica, ma esprimono una coloritura emotiva precisa e non c’è dubbio che rivendichino l’appartenenza a una storia unica, individuata. Se hai la fortuna di accogliere queste reminiscenze e la pazienza di assecondarle, riesci a scoprire che chi le conserva supera la paura, quando può raccontare.
La narrazione a qualcuno che ascolta diventa una strada verso casa. Di più, un’affermazione di competenza.
Sulla condizione che accomuna si stagliano così ritratti privati. Il signore triste si rianima, mentre condivide i gesti con i quali a cinque anni pettinava sua madre, la donna che guarda il soffitto ritrova un sorriso di ragazza se può pronunciare il nome di chi suonava sull’aia alla festa del suo matrimonio e il vecchio contabile con ambizioni letterarie si sente di nuovo capace, rileggendoti all’infinito le poesie che ha composto tra un calcolo e l’altro. La mente forse non è più in grado di riportare nel cuore, ma il cuore ha custodito quello che era importante. E allora la trasmissione di queste scaglie di vita vissuta diventa a un tempo una dimostrazione e un appello: io non ho dimenticato, tu non dimenticarmi…
La palla è a me. A noi che ci occupiamo di aiuto e che anche da queste situazioni possiamo trarre spunti per ridefinire il modo di stare accanto a chi ci porta il proprio frammento di vita e la propria difficoltà. Strano come in un posto dove sembra che i riferimenti di tempo e di spazio collassino sia quasi facile recuperare la bussola e tornare a porci come testimoni disponibili all’ascolto. La sfida è rinunciare alla presunzione di sapere – cosa dire, come accompagnare, quali strumenti proporre – per cercare di restituire all’altro tutto il potere e la competenza che ha rispetto alla sua vita, persino quando la presa sulla vita diventa insicura e chiede agli altri un rinforzo. Si tratta di abbandonare un poco il fare per cercare di essere quel therapeutés di cui parlano gli antichi: colui che si mette a servizio con premura. Che c’è e resta. Anche se non conosce la risposta.