Non è solo quello di andare avanti ma quello di sapersi fermare, a volte. O anche di voltarsi o, ancora, di fare un passo indietro. In un momento in cui passiamo da una pandemia alla minaccia di un conflitto globale, le strade per essere coraggiosi non sono sempre quelle che ci aspettiamo
“Coraggio” era una delle parole più frequenti nel lessico familiare di mia nonna. A volte usciva come fossile di un proverbio e riportava al piano noto delle cose chi di noi anticipava nel pensiero incognite, problemi e fatiche. Forza e coraggio, che il mondo è di passaggio. Più spesso l’esortativo diventava vibrante, per scuotere e rimettere in piedi qualcuno che si lasciava cadere. Ma capitava anche che “coraggio” fosse solo suggerito da un lieve movimento delle labbra, e allora la parola si eclissava dentro un abbraccio che sapeva far da casa al dolore e consolarlo.
Mi sono chiesta come avrebbe modulato il suo coraggio, questa donna piccola e immensa, se fosse stata ancora qui mentre passiamo da una pandemia alla minaccia di un conflitto globale.
Lidia – si chiamava così mia nonna – era stata sorpresa dalla malattia in diversi momenti e la guerra aveva fatto da sfondo a un’ampia fetta della sua giovinezza. Tra l’una e l’altra, però, la sorte le concesse lunghe pause di bonaccia e lei seppe capitalizzarle, fabbricando pezzo dopo pezzo la materia della sua felicità. Riuscì così a seminare sogni dai quali sbocciarono progetti, con una prodigiosa capacità di reinventarsi a ogni smottamento e di mantenere uno spirito giovane, malgrado tutte le rughe dell’esistenza. Per lei il coraggio (dal latino cŏr, cŏrdis) era, letteralmente, la mobilitazione del cuore: il muscolo che pulsa per spingere in avanti la vita.
Non so se la nonna avrebbe approvato l’espressione di un grande vitalista quale Nietzsche, a cui si deve il frammento “Ci vuole più coraggio e forza di carattere per fermarsi o addirittura per volgersi indietro che per andare avanti.” Forse avrebbe preferito un’altra declinazione nicciana del coraggio, quella che lo disegna come frutto morale della paura di aver paura. Ebbene, io intravedo in entrambe queste suggestioni – il coraggio di fermarsi per guardare indietro e il coraggio di dialogare con la paura – due spunti preziosi per elaborare, nel privato, risposte che aiuterebbero a leggere ciò che sta succedendo ai piani alti dell’attualità.
Coraggio di fermarsi. Penso alle persone che accolgo nel mio lavoro. Con il loro bagaglio di bisogni e di attese, tutti accettano di interrompere il movimento là fuori, per entrare in uno spazio-tempo definito nel quale raccontarsi. Il guerriero che in ognuno di loro è impegnato nell’impresa dell’essere al mondo prova a togliersi l’armatura. Si volge indietro e osserva il campo delle sue sfide, ma guarda anche in modo nuovo le proprie ferite. Soprattutto, nel narrarle a un ascoltatore partecipe, guadagna quella distanza che è già una forma di cura. In questa torsione, come insegna Hillman, “gli eventi che accadono diventano qualcosa su cui riflettere, più che qualcosa su cui mantenere la presa e il controllo”. Ci si ferma, allora, per far accedere eventi, emozioni, vissuti, relazioni a una piana aurorale dove la cronaca cede il passo al racconto. E nel racconto – lo sanno benissimo i bambini – la realtà si apre al possibile. È qui che riescono ad emergere soluzioni impreviste, visioni rasserenanti, idee che portano a equilibri inediti.
Il coraggio dunque, in questa accezione, chiede di arrestarci e arretrare.
Ci invita a raccontarci, dopo che abbiamo deposto le armi. Una postura che mi pare contraria a quella a cui ci stanno abituando narrative logorroiche, che parlano della guerra come parlavano di Covid, ciascuna con la presunzione di dominare la verità dei fatti e più che mai aggrappata alla volontà di conquistare consenso.
Dipende anche da noi, credo, sfuggire a questo meccanismo. Si tratta di recuperare fessure di pensiero che educhino all’apertura, di esporci senza corazza al confronto autentico, di ricostruire un’arte del raccontare che non rifiuti l’immaginazione (il poter essere) e che sappia cogliere, negli avvenimenti della nostra vicenda personale come in quelli della Storia, memorie e tracce di sviluppo tese al perpetuarsi della vita, anziché alla sua implosione.
Infine, non dimentichiamo il dialogo tra coraggio e paura. Fobos, la personificazione greca della paura, era figlio di Afrodite e di Ares. Il linguaggio mitico ci dice che, quando temiamo qualcosa o qualcuno, bellezza e aggressività, amore e lotta possono convivere. Con le tante facce di questa emozione – forse la prima che sperimentiamo nascendo – dobbiamo dunque fare i conti. Anche nei momenti in cui la paura si spoglia di ogni accento nobile e ci restituisce alla nostra fragilità. Ettore, l’eroico difensore di Troia, tentò la fuga prima di affrontare la furia di Achille, e Gesù nella solitudine del Getsemani chiese che gli fosse risparmiato il calice della Passione. Dal corridoio angusto della paura, insomma, dobbiamo per forza passare, ma è proprio grazie a questo tramite che la virtù del coraggio acquista il suo volto più vero. Senza il vaglio della paura, al posto del coraggio si profilerebbero l’incoscienza di cui parlava Giovanni Falcone o la ferocia di chi va in battaglia e, come Achille, dimentica la pietà.
Nell’attraversare gli scenari contemporanei, credo che siano tante le figure del coraggio in grado di ispirarci. Coraggio come voglia di mettere il cuore nelle nostre azioni e spingere avanti la marcia della vita, coraggio come capacità di fermarci a riflettere disarmati davanti a noi stessi, coraggio di raccontarci a qualcuno che può essere il custode del nostro fuoco (nella bellissima espressione di una persona che sto seguendo) e infine coraggio come umiltà di stare a contatto con le nostre paure.
Attivare la magia che è in noi richiede molto coraggio, una certa purezza e un profondo lavoro su sé stessi, ha detto Alejandro Jodorowsky.
Io dico che possiamo farcela.