Un adolescente in crisi con la scuola che è anche un campione di videogiochi, un programmatore in erba che non trova il suo metodo di studio, uno studente universitario alle prese con la disciplina. E la soluzione, che non va cercata dove sembra più facile trovarla
«In cosa sei veramente bravo?»
«Ai videogiochi non mi batte nessuno, sono cinquecentesimo nella classifica mondiale di Rainbow Six Siege», mi risponde un giovane adolescente che si avvia sulla strada di una probabile bocciatura.
«Sono bravo a programmare», mi dice genericamente un altro, che incontro sulla stessa via.
«Ma se la scuola fosse un videogioco?», insisto con il primo, dopo avergli chiesto di raccontarmi cosa succede nel suo videogioco preferito. Mi guarda incredulo e stanco dalla sua sedia di fronte alla mia. Passa una settimana e ricomincio: «E se tu fossi l’eroe del tuo gioco e la scuola fosse una sfida, chi vorresti essere?»
«Mozzie», e mi fa lo spelling di come si scrive (ci siamo, inizia a seguirmi…). Così, cominciamo insieme a creare questo nuovo “videogioco”, a elencare le caratteristiche dell’eroe e individuare strategie vincenti, a trovare il nemico, le tattiche, come attaccare, come difendersi. Ogni passaggio, lo riportiamo metaforicamente alla scuola. “Mozzie” si sistema sulla sedia e finalmente lo vedo: sorride di gusto.
La stessa cosa accade con il secondo ragazzo, che dopo qualche settimana dal nostro primo incontro inizia a fare schemi per tutto: storia, chimica, grammatica. Inizia con schemi fatti a penna e poi passa all’artiglieria pesante: schemi al computer che gli permettono di andare da un tema all’altro, collegandoli per ricordarli meglio. I voti, dopo qualche settimana, cambiano in positivo, e lui torna da me (ma potrei dire da sé), perché vuole scoprire come migliorare ancora il metodo di studio, che ha ripreso a decollare.
Il più geniale di tutti è un giovane universitario che non riesce più a dare esami, bloccato e quasi deciso a mollare tutto. A un certo punto iniziamo a mettere in piedi un progetto diverso: andare in palestra e darsi un ritmo e un regime alimentare, che lo aiuti con il corpo in sovrappeso. La stessa cosa verrà, piano piano, traslata nello studio. A oggi, porta a casa un esame dopo l’altro, nonostante la fatica.
Questi tre giovani ragazzi avevano tutti una cosa in comune: sono arrivati da me come spenti, un po’ assenti dalla vita, un po’ delusi, forse dalla difficoltà di portare avanti una scelta fatta anni addietro e soprattutto tormentati dalla domanda del senso: tutto questo serve? Cosa ne farò? E io, riuscirò? Domande difficili, che in alcuni casi portano alla rinuncia: da una parte perché non ci si sente sostenuti, e dall’altra perché le distrazioni che promettono di ottenere tanto con poco sono molte: ci siamo immersi dentro tutti. Una rinuncia, però, dal risvolto amaro, perché sembra in grado di spegnere la motivazione, l’energia, la spinta vitale, per dirla alla Bergson.
Ecco che allora penso sia importante andare alla ricerca di quella scintilla, quella di quando la schiena si fa dritta sulla sedia e compare un sorriso, che è vita e sfida e desiderio.
Come ci ricorda la psicoanalista Nancy McWilliams: «In un determinato momento della vita di tutte le persone, ci sono state alcune passioni – anche se si trattava di approfondire le statistiche sul baseball o giocare ai videogiochi o avvistare le celebrità – che il clinico e il paziente possono provare a ritrovare insieme e da cui possa lentamente riemergere e diffondersi un senso di vitalità».
Forse, a pensarci bene, la prima scintilla vitale è quella dell’incontro, in cui si promette di restare a fianco, nonostante la via sia smarrita e anzi, proprio per quello.