Il potere creativo delle parole non si esaurisce nel mondo magico dei bambini. Quelle che, da adulti, ci sembrano solo strumenti per descrivere il mondo, nascondono poteri che non possiamo sottovalutare
Abracadabra, una parola misteriosa che apre a una dimensione magica, che ci porta nel mondo incantato dei bambini, nel mondo in cui «si trova tutto nel nulla», per citare Leopardi. Io, da instancabile parolaio, ho cercato un po’ in giro e anche se a dire il vero il verdetto non è unanime, sembrerebbe che la parola magica discenda dall’aramaico Avrah kaDabra, che suona pressappoco così: «Con la parola creo».
Pensando allora al potere creativo della parola, l’attenzione va subito al mondo dei bambini, alla scoperta della parola che indica una cosa, uno stato d’animo, un luogo, una persona. Improvvisamente, dunque, abbiamo dei mattoni che di fatto rendono reali e comprensibili le cose del mondo, che ci orientano. Poi diventiamo adulti e ci sembra di avere parole per tutto, ci sembra di avere in mano la chiave che apre mondi e rende possibile l’accesso alle dimensioni più inaspettate.
Le cose a mio modo di vedere però non sono proprio così, proprio per la caratteristica della parola, per il suo potere creativo. Nel mio mestiere, per esempio, mi trovo a dover utilizzare le parole con particolare attenzione. «Una parola è troppo e due sono poche» come dice il proverbio, quasi a volerci invitare alla prudenza, alla ricerca del modo, del timbro e del tempo giusto in cui dobbiamo proferire parola. Il lavoro clinico da questo punto di vista mi sembra ricordare una pratica artistica come la musica. Battere e levare dunque, crescendo e diminuendo; parole sussurrate sulla porta, troppo importanti per dirle in modo chiaro e netto, parole non dette, trattenute in gola, punteggiatura della carne, dinamica del dolore, tonalità della rabbia.
Ogni parola, dunque, non crea solo significati, pensieri, ecc.: ci sono parole che muovono lacrime, che spostano corpi, parole grevi, leggere, taglienti. E allora via di nuovo coi proverbi: «Ne uccide più la lingua che la spada», dunque parole che offendono, che provocano che mordono, feriscono.
Nel riflettere sulle situazioni più complesse del mio mestiere spesso si cerca di andare a fondo proprio sui significati delle parole, sulla polisemia che apre mondi diversi, linee di indirizzo e di significazione diverse. Accade per esempio che riflettendo sulla parola «prova» emerga il significato di cercare di fare qualcosa e allo stesso tempo l’angoscia di un esame da superare. Due orizzonti, dunque, completamente diversi, che attivano mondi altrettanto diversi.
Sarebbe bello allora che ciascuno riflettesse sul potere delle parole e su un uso prudente e consapevole di una chiave magica che ci accompagna per tutta la vita e che rimane per tutta la nostra vita un oggetto da manipolare con molta cura.