Dopo tanti divieti la libertà, e con essa la scelta, portano con sé una vertigine che può condurre alla chiusura
Il signor D. ha iniziato, mesi fa, con me un percorso di crescita personale online. Quando le misure di emergenza sanitaria si sono allentate, ci siamo visti nel mio studio: un appuntamento fisso, lo stesso giorno, la stessa ora. Il signor D. procedeva nel percorso, scoprendo di sé alcune cose, tentando di cambiare i consueti percorsi del pensiero, riflettendo sulle proprie dinamiche personali e interpersonali. Tre settimane fa, tuttavia, gli impegni di lavoro del Signor D. ci hanno costretti a tornare dietro uno schermo. Dopo tre incontri virtuali, lo rivedo in presenza e lui apre la nostra ora insieme, dicendo: “mi sono reso conto l’altra volta, mentre eravamo online, che non ero presente davvero, perché ero collegato con lei, a pochi passi dal mio letto, troppo vicino alle pantofole. Così ho deciso fermamente di volerla ritrovare di persona, fuori dal mio contesto abituale”. Che felice intuizione!
Il signor D. si rende conto di una cosa cruciale: se non esce di casa, se non si impegna per venire in studio, se non si deve organizzare per raggiungermi, allora fa fatica ad incontrare se stesso. Anzi, la sensazione è proprio quella di perdere il filo che aveva intessuto con me e, in definitiva, di perdersi.
Eppure,
riprendere i riti, lasciare pigiama e divano, per tornare, seppur con le dovute attenzioni e cautele, a vivere le relazioni, sembra essere molto faticoso.
Si sente, infatti, parlare nuovamente della cosiddetta sindrome della capanna, uno stato di disagio e malessere che colpisce le persone nel momento in cui, dopo un lungo periodo di distacco dalla realtà e di distanziamento sociale, possono tornare ad uscire. I dati di una recente indagine Uil parlano chiaro: un lavoratore lombardo su due, richiamato dall’azienda a tornare in ufficio, dopo essere stato vaccinato, preferirebbe non rientrare. La percentuale di coloro che non vogliono ripresentarsi sul luogo di lavoro sale addirittura all’80%, all’interno del mondo bancario e assicurativo.
Comodità o inerzia? Vantaggio o ritiro?
Di fronte a queste domande, non posso non ricordare che il “sentimento del possibile”, ossia la sensazione provata di fronte alle infinite possibilità offerte dalla libertà, viene definito dal filosofo Søren Kirkegaard, angoscia (Il concetto di angoscia, 1844). Di che si tratta? In psicologia, viene talvolta assimilata all’ansia, ma il filosofo ne evidenzia una specificità ben precisa: le molteplici possibilità di scelta, che si aprono per ciascuno di noi, ci mettono in scacco, non essendo insita in alcuna di loro la garanzia di riuscita, di successo. “Nel possibile tutto è possibile”, dice il filosofo: le nostre umane accortezze non possono impedire il fallimento, la catastrofe, la morte. Ecco che allora, la libertà e con essa la scelta, portano in sé una “vertigine” e una terribile, a volte inconfessabile, verità, che può condurre all’immobilismo, alla chiusura, o per dirla sempre con Kirkegaard alla “disperazione”.
La lunga sosta forzata e la successiva ripartenza mettono in luce (una luce abbagliante, mi pare) quanto sia illusoria la pretesa del controllo su eventi e persone; quanto scelta, fallimento e rinuncia siano intimamente collegati e quanto proprio queste consapevolezze rendano complicate e faticose le nostre decisioni.
Eppure, il signor D. mi dice: voglio tornare presente a me stesso. Nonostante la paura e l’angoscia, potrei aggiungere. Una presenza che può diventare magnifica, per citare il titolo di un film di Ferzan Ozpetek (Magnifica presenza, 2012). I fantasmi che popolano la casa del giovane protagonista, da ingombranti occupanti diventano interlocutori preziosi, nel momento in cui si accetta di sentire la loro voce, di parlare con loro e sopratutto di ascoltarne la storia. E proprio questo processo di reciproco incontro sembra fare una magnifica promessa: iniziare a liberarsi dei fantasmi interni, è possibile!
già pubblicato su @fuoritestata.it