La forza ha a che fare con la violenza? E la rabbia come la gestiamo? La strada per comprendere quello che la mente a volte rifiuta di guardare resta quella del maneggiare, del gestire, dell’avere sempre a che fare con quella parte di noi che meno conosciamo, che più vorremmo nascondere. E alla quale fatichiamo a dare un nome
«Opporre alla ragione della forza, la forza della ragione». Mi risuona questa frase, sentita nella mia Valsesia in riferimento alla seconda guerra mondiale e alla lotta di resistenza partigiana. Quello che appare come un gradevole gioco di parole rimanda a due aspetti fondamentali: se alla ragione io ascrivo una forza – ovvero una capacità di incidere plasticamente sull’agire umano – per converso debbo ammettere che anche la forza in sé possa produrre una ragione, affermandosi però con il potere e la costrizione sull’altro.
Il filosofo Emanuele Severino in un suo scritto (Il dito e la luna. Riflessioni su filosofia, fede e politica, del 2022) parla dell’espressione «avere ragione di» come metafora dell’essere più forti, del sopraffare. Ma se questa è la forza, quando diventa violenza? Forse quando l’agire si presenta solo come un’azione volta a danneggiare l’altro, a toglierlo di mezzo? Ma serve fare un passo indietro: che cosa è violenza?
Le parole sono importanti e da quelle parto, per comprendere: pensando all’etimologia, la parola «violenza» rimanda in qualche modo a un’azione che di fatto viola le condizioni in cui agisce. Nell’atto di violenza, cioè, abbiamo un uso della forza che sembra voler sovvertire le regole del gioco, siano esse fisiche – come l’onda di piena che travalica la sponda e dunque violenta l’argine –, siano esse regole di convivenza, la rabbia per una persona che non vuole più vivere con noi, siano esse regole che attengono da sempre al nostro stare nel mondo, se non posso avere una persona la prendo senza il suo consenso, violandola.
Sembrerebbe, allora, che quello spazio mentale, quel cassettino, un luogo in cui possiamo cercare di dare senso all’informe, di trovare riparo da ciò che fa troppo male, in cui noi riponiamo le parole, i pensieri, i significati per poi poterli usare nell’atto di comprensione di ciò che ci accade, nel caso della violenza non ci sia. Dunque, la forza viene chiamata in causa ma, non trovando la possibilità e l’argine della mentalizzazione, non può che diventare violenza, non può che finire col trovarsi improvvisamente al di fuori delle regole, anche le più radicali e importanti del nostro agire.
Il mondo della violenza, quindi, è nel mondo della rarefazione assoluta dello spazio di mentalizzazione. Qui la persona viene invasa da un’emozione che di fatto non trova contenimento, non trova una dotazione di senso e allora non le resta che divenire azione, azione distruttiva che trova nell’agire una sostituzione alla mentalizzazione.
Se riuscissimo a comprendere questo aspetto, penseremmo a come dotarci e dotare le menti più giovani delle nostre di tanti cassettini nei quali riporre tutto ciò che non è esprimibile, non ha spazio, scandalizza. Intendiamoci bene, il «cassettino» non è la metafora del chiudere, reprimere, tenere sotto chiave. Al contrario si tratta di una porta di accesso che promuove un nuovo modo di arginare la forza per riuscire a contenerla.
La chiave, allora, sta nel dare voce all’indicibile, confessare le fantasie più irricevibili, conservarle e maneggiarle in uno spazio in cui – grazie al linguaggio e alla parola – tutto diviene possibile e dunque ricevuto. Al contrario di quello che può apparire, tutto questo non porta all’emulazione, al temuto passaggio all’atto: al contrario. Si tratta di costruire una forma di prevenzione, di creare quello spazio mentale all’interno del quale possiamo fare agire la fantasia e la forza che altrimenti, senza questa nazionalità, non potrebbe che trovare la sua strada nella violenza.