Una delle storie dell’Almamatto è quella della poetessa americana che a 25 anni decide di chiudersi nella casa del padre. Un isolamento volontario, il suo, che non le impedisce di scrivere le sue poesie straordinarie e intense. Un rifiuto del mondo esterno che ricorda quello di moltissimi adolescenti che decidono di chiudersi, escludendo dalla loro vita il dialogo con l’altro
Una riflessione sulla follia delle donne nella storia, ha dato vita, qualche giorno fa, a un evento che ha visto protagonista l’Almamatto, nella splendida cornice dello Spazio Alda Merini di Milano. “Pazze geniali”, era questo il titolo della serata, ha riletto alcune biografie al femminile, nel tentativo di portare alla luce la non facile tessitura di alcuni fili quali creatività, genialità, inclusione / esclusione e follia.
Le storie raccontate dal libro “Almamatto. Un matto al giorno” sono le storie di donne e uomini che “hanno cambiato il mondo”: una sorta di almanacco che racconta, al posto del santo del giorno, il “matto” o la “matta” del giorno. Una delle biografie scelte per la serata è stata quella della poetessa Emily Dickinson che, nel fiore della giovinezza, a 25 anni, prende una decisione definitiva e drastica: rinuncia totalmente alla dimensione pubblica e sociale e si chiude nella casa del padre, dove vivrà fino alla morte, consacrandosi alla poesia e vestendosi solo di bianco, in segno di purezza.
Emily decide di essere una vestale irreprensibile e severa e si affida al proprio mondo interno, con cui dialoga continuamente e da cui attinge versi, immagini, fantasie da riporre con cura sulle pagine dei suoi quaderni. Dentro di lei c’è la strega, la zingara, la monaca ribelle, la regina, la mendicante, persino l’amante di uomini immaginati più che vissuti: tutte queste sue parti contribuiscono al suo “nomadismo mentale” (una felice definizione di Marisa Bulgheroni, curatrice dell’edizione integrale delle poesie della Dickinson, nella collana dei Merdiani),
Emily, si legge nell’Almamatto, non uscirà dalla casa del padre nemmeno per incontrare un possibile editore, Thomas Higginson: lui le scrive di andarlo a trovare a Boston, ma lei si scusa “non oltrepasso mai i confini del giardino di mio padre per andare in altre case, o altre città”. E così è lui che va da lei, cercando di stanarla, senza successo.
Enigmatica Dickinson, compie una scelta che la rende speciale, nel segno di una purezza che tende alla perfezione. Una esclusività radicale che diventa esclusione, nella forma dell’auto esclusione.
Se, da una parte, per comporre i suoi versi, Emily attinge al proprio interno, un mondo ricchissimo di cui è protagonista e sempre da capo artefice, dall’altra però rinuncia a quello che oggi definiamo feedback, ossia alla risposta dal mondo.
Basta a se stessa per la ricchezza che la àbita, ma perde il confronto con l’altro, un elemento fondamentale di crescita, di evoluzione e trasformazione.
Una tentazione, quella di chiudersi rinunciando al dialogo con l’altro, che ho visto molte volte nel mio lavoro, in questi ultimi mesi, soprattutto con i giovani adolescenti, ma non solo: paura di competere, paura di fallire, paura del giudizio sfociano spesso in vergogna, stati d’ansia e perdita di punti di riferimento, fino ad arrivare allo smarrimento di uno scopo nella vita. La stessa paura, a me pare, che spinse Emily a isolarsi per scrivere: confessa in una lettera a Higginson: “Ho avuto un terrore di cui non potevo parlare con nessuno – e così canto come il ragazzo quando passa vicino al cimitero – perché ho paura”.
“La sensazione di non essere capaci di vivere” come la definisce Pietropolli Charmet è spaventosa e dolorosa a un tempo e conduce i ragazzi sulla soglia tra il dentro e il fuori, tra ritiro e partecipazione. Un “eterno presente” (sempre Charmet) che non è in grado di proiettarsi nel futuro seduce e promette conforto nell’avvio di “pratiche” non funzionali, quali isolamento, aggressione al proprio corpo, fuga nelle realtà virtuali.
Intercettare i giovani su questa soglia è stato in questi mesi, fondamentale: garantire loro uno spazio di ascolto, comprensione e parola ed anche di limiti e regole ha rappresentato forse quell’esperienza diversa, in grado di restituire la possibilità di un mondo più abitabile.
Non sapremo mai come sarebbero stati i versi della Dickinson se lei avesse iniziato a vivere fuori e certamente le sue 1775 poesie sono di straordinaria bellezza e intensità. Tuttavia, il dubbio si insinua in me ed anche in lei, che chiede: “Signor Higginson, è troppo impegnato per dirmi se la mia poesia è viva?”.