Come fanno gli psicologi che tornano a casa a non essere sopraffatti e “appesantiti” dalle storie dei loro pazienti? Come fanno a dormire sereni dopo aver ascoltato storie di sofferenza e di fatica? La chiave è nella relazione, non fuori da essa
Diversi sono i luoghi comuni che si aggirano attorno alla mia professione (come del resto, immagino, a molte altre, se non a tutte), ma la domanda che più spesso mi sento rivolgere è: “Ma poi, la sera, quando torni a casa, non ti senti appesantita da tutte le storie che ascolti?”.
La sera… in alcuni casi, arrivano anche a chiedermi “ma come fai a dormirci la notte?”, dando forma ad un’idea persecutoria, affliggente e senza scampo, secondo la quale i racconti delle vite degli altri possano essere un carico troppo gravoso che si aggiungerebbe ai miei.
Proprio in questi giorni, quando per l’ennesima volta mi son sentita rivolgere questa domanda, ho pensato a quanto dev’essere difficile e faticoso ascoltare! In effetti, se il dispositivo dell’ascolto è inteso passivamente, si può avere quella sensazione di portarsi via un peso dall’incontro con l’altro. Come quando diciamo che il tale ci ha “buttato addosso” tutti i suoi problemi, o il tal altro ci ha “invaso di parole”, o ancora – e questo è un fatto reale, tratto da una recente riunione condominiale – “ci ha messi tutti a tacere, ha urlato solo lui!” (un buon modo, direi, per non far mettere ai voti una proposta!).
Parole subìte, che hanno il potere di metterci ko. A mio parere, però, nel mio lavoro di psicologa avviene qualcosa di diverso:
settimana dopo settimana, un’ora alla volta, non si ascolta soltanto e sicuramente non passivamente, ma si costruisce una relazione.
Attàh, dice l’Ebreo per dire Tu. Una parolina che rimanda a significati ben lontani dall’idea di essere, gli uni per gli altri, un vaso in cui riversare le proprie immondizie emotive o cognitive. Le prime due lettere della parola attàh sono niente meno che la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, alef e tav: come dire, l’inizio e la fine, i due momenti in cui è racchiusa tutta la Creazione. Se alef rappresenta l’origine della vita, il suono del primo alito di respiro, tav rappresenta il sigillo, il segno della fine di tutte le cose. Ma non è tutto: la he che si congiunge alle prime due lettere, è la quinta lettera dell’alfabeto ebraico, che simboleggia il nome di Dio. Questa lettera, che è come un soffio (basta provare a pronunciarla sottovoce), ha, inoltre, il significato triplice di dolore (ahi!), meraviglia (ecco!) e richiamo d’attenzione (ehi!).
“Tu”, l’altro della relazione, è il condensato di un intero universo di senso. A me pare basti questo per spostare l’accento dal peso al desiderio della condivisione, dal sentirsi invasi a un’arricchente curiosità e apertura verso l’Altro, il Tu della relazione, appunto. Non la curiosità pettegola, ma quella legata alla scoperta, dell’altro e di parti di sé.
Su questa riflessione, che da due lettere (tre, per l’ebraismo) ci porta nel bel mezzo di un intero mondo, Martin Buber, filosofo e teologo del secolo scorso, fonda buona parte della propria visione filosofica, mettendo al centro il dialogo, quale dispositivo fondamentale della relazione Io-Tu. E ciò che accade tra psicologo e paziente si avvicina certamente più a un dialogo che a un fiume di parole (anche quando il dialogo prende questa forma). Attraverso (dia) la parola, il discorso (logos), è possibile incontrare autenticamente l’Altro, costruire una relazione unica, per nulla uguale a tutte le altre, e da qui – direi solo da qui – cercare risposte alle nostre domande esistenziali e ai problemi. La parola, quindi, non è subìta, ma diviene strumento essenziale di relazione.
Quel tentativo di alleviare la sofferenza, con la consapevolezza di incontrarsi senza fondersi, di parlarsi senza sopportare, e quell’idea che “la vita dialogica non è quella in cui si ha a che fare con molti uomini, ma quella in cui si ha davvero a che fare con gli uomini con cui si ha a che fare” (Dialogo, M. Buber), non sono per me un peso, ma il mio modo di incontrare e accompagnare chi mi ha chiesto aiuto.