La Cappella Sistina che vediamo oggi non è quella di trent’anni fa. In qualche modo, sono proprio due diverse realtà. Quanto c’è del nostro sguardo, parziale e soggettivo, in quella che chiamiamo verità? Quanto dei nostri giudizi, pregiudizi e scorciatoie?
Anni fa, più di trenta ormai, mio fratello, che all’epoca frequentava il liceo artistico e già allora era appassionato ed esperto di arte, in un assolato dopopranzo mi intrattenne per diverse ore spiegandomi che stava studiando Michelangelo e in particolare la Cappella Sistina, quelle volte in cui il maestro aveva impresso a imperitura memoria la Genesi e altri passaggi dell’Antico Testamento. Colpiva particolarmente l’atmosfera molto cupa di quelle mirabili opere e da lì nascevano alcune interpretazioni critiche di come il maestro avesse voluto dare alla creazione e altri momenti raffigurati una tonalità che ricordava il pensiero medievale più che quello rinascimentale a lui contemporaneo.
Di lì ad alcuni anni successe qualcosa di particolare: vennero affidati i restauri e la pulizia della Cappella a una équipe internazionale, guidata da un gruppo di restauratori storici dell’arte giapponesi. Quando la Cappella fu riaperta al pubblico le immagini fecero rapidamente il giro del mondo. L’opera apparve allora in tutta la sua originale brillantezza, venne definita addirittura abbagliante visto l’uso dei colori, vivi e potenti come non mai. Da quel momento, quindi, la Cappella Sistina è annoverata come fulgido esempio della luce rinascimentale, un trionfo di Dio e della Vita come molti stimati critici dell’arte l’hanno definita.
La storia di queste “due Cappelle Sistine”, di questi “due Michelangelo”, per me che di arte so ben poco rappresenta però molto bene un approccio a me molto caro che in psicologia va sotto il nome di “costruzionismo”. La scuola di Palo Alto in California infatti ci dice che, fatti salvi i fatti della scienza, il concetto di verità non è oggettivo ma – appunto – costruito da chi osserva, che non è mai osservatore neutrale e che tende quasi sempre a cercare di trovare una spiegazione di come la realtà appare preferendo quindi pacificare la ricerca di senso anziché lasciarla aperta.
Chi avrebbe mai pensato che le tonalità scure della cappella Sistina fossero legate in realtà all’uso di centinaia di anni di candele come illuminazione? Questa ipotetica altra verità forse avrebbe potuto coesistere con l’altra (quella dei toni cupi), ma non ce l’ha fatta.
Dunque, ciò che chiamiamo verità è in qualche modo una verità che spesso ha solo il vantaggio (posto che lo sia) di farci smettere di cercare, di trovare finalmente pace.
Il giudizio, il pregiudizio, la diffidenza, lo straniero che diviene strano, il paziente impossibile da aiutare, il bambino cattivo, il ragazzo supponente, sono tutto sommato verità comode, perché ci aiutano a smettere di cercare una spiegazione che nella sua alterità terrebbe però aperta l’inquietudine, ci restituirebbe responsabilità.
Tutto sommato, il mondo in cui i cattivi sono anche brutti e maleodoranti mentre i buoni sono belli e sanno di lavanda ci fa stare più tranquilli.
Speriamo allora che non arrivino i giapponesi a spiegarci che «l’idea che ci sia un’unica verità è la più pericolosa delle illusioni».