La sfiancante lotta per evitare l’inevitabile

Una foto a colori, in formato orizzontale, che ritrae, su una superficie piana color amaranto, tre dadi da gioco affiancati. La faccia frontale del primo reca la scritta “Past” (“Passato”), quella del terzo reca la scritta “Future” (“Futuro”); il dado centrale, tra il primo e il terzo, è in equilibrio su uno spigolo, forse anche perché schiacciato tra il primo e il secondo, e perciò se ne vedono bene la faccia superiore e quella frontale; sulla prima c’è il segno matematico dell’uguaglianza, sulla seconda quello della diversità.

Anche se apparentemente dolore e sofferenza possono sembrare sinonimi, la differenza è sostanziale. Per la filosofia Zen, per esempio, il dolore è inevitabile, mentre la sofferenza è opzionale.

Una domanda apparentemente inutile, come spesso molte domande appaiono: che differenza c’è tra dolore e sofferenza? Sono la stessa cosa o sono sinonimi? Ad andare di corsa, come normalmente ci siamo abituati ad andare, si direbbe che in fondo siano la stessa cosa; a ben guardare, però, a voler spaccare il capello se non in quattro almeno in due, le cose stanno diversamente.

Nella filosofia Zen viene spiegata bene questa cosa del dolore e della sofferenza, quasi in modo matematico. Lo Zen dice: il dolore è inevitabile, la sofferenza è opzionale. Che strana cosa, mi sono detto, e ho deciso di grattare un po’ la superficie per capire che cosa c’è sotto; il dolore è una datità organica, fisiologica, è la reazione del nostro organismo a un evento, sia esso fisico (sbatto con un piede contro la porta, per esempio) o psichico (ho un lutto, vengo licenziato).

La sofferenza invece è un’altra cosa, la sofferenza è un complesso groviglio di pensieri che noi attiviamo per cercare di contrastare, mandare via il dolore, opporgli resistenza.

Allora, nella dimensione della sofferenza maledico me stesso perché ho sbattuto contro la porta, mi chiedo perché sia capitata proprio a me quella cosa, come mai non sono riuscito a evitare questo o quell’ostacolo della vita.

A questo punto, forzando una semplificazione impossibile, possiamo costruire una specie di formula matematica: dolore + resistenza = sofferenza. Al di là dell’assurda idea di avere una formula per descrivere l’animo umano, mi sembra che però questo tipo di formula ci suggerisca che, se rinunciamo a opporci al dolore, in ogni caso inevitabile reazione a ciò che ci accade, la quantità di sofferenza è comunque minore di quella che ci toccherebbe opponendoci.

Nel mio mestiere mi capita spesso di aiutare le persone a evitare di opporsi a ciò che sta accadendo loro. A mio parere l’elaborazione delle fatiche della vita non può che passare attraverso una disposizione d’animo che riesca ad accogliere ciò che invece nel modo più assoluto non si vorrebbe neanche vedere.

Intendiamoci: non penso di proporre una dimensione stoica di perdono sacrificale nei confronti di una realtà che non si vuole, niente roba da santi o aspiranti tali. Prendere atto di ciò che è accaduto, rinunciare a opporvisi, fare spazio dentro di noi per ospitare l’inospitabile, vuol dire anche riuscire a mobilitare tutte le risorse per comprendere prima, dialetticizzare dopo e infine riuscire ad aver ragione della situazione.

Quando, dunque, smetteremo di accanirci e protestare perché piove mentre noi volevamo il sole, allora e solo allora potremo entrare nella realtà e dunque imparare a vivere anche nella pioggia. In fondo, solo di questo si tratta, di costruire una presenza, di evitare la fuga da ciò che accade. Il rifugio nel mondo del “se” e del “ma” può darci un’apparente sensazione di protezione, ma in realtà non è altro che rimandare l’incontro con l’inevitabile.

2 commenti

  1. Assolutamente d’accordo, con una precisazione, io che sono buddista pur non seguendo la scuola Zen confermo che l’insegnamento sulla sofferenza nel Buddismo anche nelle diverse scuole sia tanto profondo quanto calzante. Svela la paura che secondo gli insegnamenti si cela dietro ogni resistenza, proprio come dice l’articolo il primo passo è accogliere, occuparsi di costruire una forte identità che ci permetterà di sentire con fiducia delle nostre risorse, capacità. Solo dopo avviene la trasformazione, dopo aver consapevolizzato la nostra paura e come dico io, prenderla a braccetto ed andare avanti. Non permetterle di diventare la nostra zavorra. Procedendo nel “vivere la nostra vita” scopriamo che ce la facciamo allora inizia la trasformazione. Nel tempo individuale, impareremo a riconoscere le nostre tendenze e a modificare la nostra azione- reazione agli eventi che la vita porta incontro.

    1. Autore

      bella riflessione cara Simona, un abbraccio e grazie per il tuo pensiero

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