Sulla Maturità 2019 covavo, lo ammetto, qualche pregiudizio. Se provavo a immaginare l’esame, la memoria riesumava immancabilmente l’iconica domanda di un vecchio quiz televisivo: quale busta vuole, la 1, la 2 o la 3?
Così, per sottoporre a verifica il preconcetto (che sappiamo essere deleterio, soprattutto per chi si occupa di relazione d’aiuto), ho chiesto a un parente in servizio presso un Liceo di poter assistere a un orale. Il giorno previsto arrivo in tempo per registrare l’ansia di chi aspetta il suo turno dietro una porta chiusa. Pochi minuti e c’è il richiamo ufficiale per la candidata. Entro anch’io in aula, occupo un posto accanto ad altri due spettatori, guardo la commissione schierata a ferro di cavallo e finalmente sento il fatidico: “Quale busta sceglie?” Ecco, mi dico, sfuma la sacralità di un momento che segna simbolicamente la frontiera dell’adolescenza.
E invece… no. Nella busta selezionata dalla ragazza c’è un testo che viene proiettato sullo schermo, sopra la postazione della Presidente. Vi intercetto il riferimento al magnetismo, un argomento tutt’altro che in linea con le materie portanti di quell’indirizzo di studi. La candidata si concede qualche minuto per scorrere lo scritto, poi afferra un foglio su cui può annotare i collegamenti interdisciplinari che la lettura le ispira e infine, non senza essersi assicurata che quello fosse il momento opportuno, prende la parola.
La voce è bassa e ferma. Parte dalla fisica e cita un protocollo che sfrutta le forze dei campi gravitazionali per contrastare i tumori. Poi si rivolge alla professoressa di scienze e rende conto dell’eziopatogenesi del cancro. Il focus del suo discorso – esplicita – è il binomio dolore-cura. Per questo passa poi ad esplorare i percorsi di elaborazione della sofferenza che l’uomo, da Epicuro a Gadda, ha attraversato nel tentativo di darsi una risposta a ciò che interroga e scava e uccide. Si sofferma sulla storia e sui conflitti mondiali, sull’orrore dell’Olocausto e su I Sommersi e i Salvati di Primo Levi. Nel finale vira verso la filosofia, nominando Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche.
I commissari interrompono l’esposizione con qualche domanda, prima di chiedere una parola sull’alternanza scuola e lavoro. Allora la ragazza, con il supporto di un file multimediale (e qui non ce n’è per nessuno: i nativi digitali hanno un vantaggio insuperabile) descrive la sua esperienza in un ospedale milanese. Racconta che ha potuto accompagnare i medici in un giro visite e persino assistere a un intervento in sala operatoria. Mette a fuoco le competenze che ha sviluppato. “D’altronde”, precisa, “voglio iscrivermi a Medicina”. Il cerchio si chiude. Dalla terapia per i tumori che una lettura sulla forza di gravità aveva evocato, la giovane arriva a condividere la sua decisione adulta, professionale. Una decisione che con il dolore e la cura, il tema della sua prova, ha molto a che fare.
Io sono strabiliata. Il mio contatto preciserà che gli studenti vengono preparati con simulazioni e role play, mi dirà che esistono binari precostituiti, nell’alveo dei quali i ragazzi improntano il loro discorso, e che la rosa degli autori da toccare è suggerita durante le interrogazioni dell’anno. Tutto chiaro. Ma il mio pregiudizio sulla presunta banalità della nuova maturità è comunque andato in pezzi, insieme al refrain che vuole i ragazzi di oggi svogliati, sdraiati per dirla con Michele Serra, demotivati e senza speranza.
Non sono tanto le conoscenze della candidata a impressionarmi e nemmeno la disinvoltura con cui lei scivola tra le materie. Quello che mi colpisce è la tenuta di fronte a uno stimolo imprevedibile (il testo nella busta), assolutamente decontestualizzato.
Ammiro la capacità di dominare il corpo a 19 anni, l’abilità di organizzare un discorso coerente, la saldatura tra teoria e pratica, chiarissima nell’aggancio allo stage. In questo c’è la misura della “maturità” della studentessa e credo che il format della nuova prova si presti più di altri a farla emergere. Con buona pace delle buste.
Un caso di eccellenza, si dirà. In corridoio però aspetta un altro studente, che un incidente ha costretto a casa nell’ultimo trimestre. Non assisto al suo esame, ma avrò modo di leggere il messaggio che, a prova conclusa, inoltrerà al mio parente: «Mi sono testato al massimo delle mie possibilità. Dover combattere ogni giorno con la stanchezza e con mille problematiche mi ha fatto capire quanto si debba essere fieri di dove si arriva, indipendentemente dal risultato finale.»
A questo punto, quando anche la statistica regala la sua dimostrazione (due esempi di ordinaria straordinarietà nel giro di un paio d’ore) non ci sono preconcetti che tengano: so che possono servire anni di terapia per arrivare, da adulti, a un tale livello di consapevolezza. Il paesaggio degli strafalcioni e dei lapsus dei maturandi che la narrativa mediatica ci consegna è tutt’altro che uniforme.
Cosa porto a casa da questa esperienza? Innanzitutto un bagno di umiltà. Poi la conferma che la scuola non ha ancora abdicato alla sua missione. Ci sono prassi didattiche in grado di abbracciare il nuovo, senza voltare le spalle al vituperato nozionismo, la base per poter coltivare il dubbio. Ed esistono docenti tanto capaci di trasmettere ai ragazzi la necessità della fatica, quanto vogliosi di nutrire il loro talento, la loro sete di sapere, la passione etica che infiamma la giovinezza.
La lezione più importante che traggo, poi, mi riconduce a Rogers e alla sua idea dell’uomo. Quando cadono i pregiudizi e ci sono le condizioni adatte, quando chi si trova a guidare – un insegnante, un genitore, un terapeuta – ha davvero fiducia nelle potenzialità dell’altro, queste potenzialità fioriscono. E la loro fioritura spiazza. Sempre.
Finalmente un giudizio positivo sulla scuola!
Certo, non sempre funziona così bene, a volte sì, però. Molti insegnanti, come me, continuano a crederci e anche molti studenti.
Grazie dell’attenzione. Credo che lo scenario della scuola italiana sia complesso e, appunto, diversificato. A fronte di certe generalizzazioni, che non solo addormentano il pensiero, ma diffondono pessimismo e passatismo, mi premeva spezzare una lancia a favore degli esempi luminosi. Ci sono. Ma come le buone notizie, fanno purtroppo meno rumore.