A volte ce lo imponiamo, e non ci riesce. Fermarsi significa lasciar andare il controllo, anche su noi stessi, per stare realmente in contatto con noi e per poter stare in ascolto dell’altro
L’abbiamo chiamato in tanti modi: meditazione, training autogeno, yoga, estasi, più di recente mindfulness e focusing. La questione che io, da ragazzo di campagna, amo chiamare semplicemente lo stare fermi riveste a mio modo di vedere una importanza cruciale per quelli che fanno il mio mestiere.
Io, da sempre agitato e inquieto, ne ho fatto una questione di vita o di morte, una di quelle cose che le impari per mestiere ma che poi a conti fatti ti rimangono per la vita. Le persone che mi conoscono, con le quali condivido le esperienze del lavoro e della riflessione, mi citano come quello che invita sempre a “stare fermi”. Siccome però a volte mi vedo come le beghine della canzone Bocca di Rosa di Faber che “danno buoni consigli quando non possono più dare cattivo esempio”, in questa riflessione non voglio assolutamente essere di esempio, men che meno insegnare qualcosa.
Un pensiero, però, da tempo cerco di produrlo in questa direzione perché penso possa essere utile: innanzitutto dovremmo cercare di capire cosa intendiamo per stare fermi e forse, prima ancora, prendere atto che l’inquietudine è da sempre la nostra modalità base. L’agitarsi, il fare, il sentire di dover fare non è altro che la nostra principale difesa che ci garantisce di mantenere una certa coesione, di non sprofondare nell’abisso che ciascuno di noi reca in sé. Dunque, fermarsi è terribilmente costoso perché ci connette direttamente con il nostro abitante interiore.
Certo, c’è fermarsi e fermarsi, non basta stare fisicamente fermi o in silenzio. Dunque, in cosa consiste questo “stare fermi” così utile nella pratica clinica? Mollare il controllo, certamente: evitare cioè il paradosso di forzarci allo stare fermi, come quelle volte in cui non riusciamo a prender sonno e cerchiamo con la forza di addormentarci. Si tratta, al contrario, lentamente di
cercare una connessione con quella parte di noi che, a dispetto di tutto quello che accade rimane placida, che non fugge in avanti verso l’ansia o indietro verso il rammarico ma rimane lì: sente.
Si tratta di tornare in quel luogo da dove siamo nati, prima ancora che ci insegnassero a non fidarci, ad avere paura, a invidiare. Platone lo chiama thaumazein, Peirce “firstness”, Sini incanto. Occhi aperti, completamente spalancati che guardano il tutto. Non qualcosa, non qualcuno: lo sguardo che guarda senza l’oggetto conquista il mondo arriva al centro del centro del mondo.
È nella connessione intima a questo principio di ogni cosa che sperimentiamo quello stare fermi che io intendo. Non rigidamente fermi, non violentemente zitti ma serenamente aperti. L’apertura all’altro diviene possibile proprio a partire da noi e da questa prospettiva che, a conti fatti, ci mette a completa disposizione dell’altro. Nello spazio di seduta, ad esempio, è molto importante che l’altro si senta completamente autorizzato a lasciare emergere qualsiasi cosa, che si senta supportato, accolto ma non condotto. In fondo siamo maggiordomi e non padroni di casa, scudieri e non eroi. In battaglia ci va il nostro cliente, lui combatte contro i propri demoni, noi rimaniamo accanto, custodiamo le armi, apparecchiamo la tavola, riassettiamo, puliamo le ferite.
In questa epoca di super addestramenti, di approcci sempre più tecnici e sempre meno relazionali, forse per stanchezza, sicuramente per indole melanconica e conservatrice, io proporrei di tornare alla vecchia pratica dello stare fermi, da condividere e da non insegnare, allo stare accanto in silenzio da far sperimentare e non da dichiarare. Così, adagio adagio e senza neanche tirarsela troppo, ci si prende cura e si cerca di stare un po’ meglio.