Un progressivo ritiro dalla vita: meno relazioni, meno occasioni sociali, giornate che passano sempre più spesso “in remoto”. Si perde l’esistenza stessa, il vivere fuori, con un rischio di implosione che sembriamo non considerare abbastanza
«Sei d’accordo di fare la rivoluzione?», «Si ma non con la mia macchina!».
Così, un geniale Paolo Rossi cercava con la sua irriverenza di aiutarci a comprendere l’inizio di quella che poi è divenuta l’età del disimpegno. Certo, di tempo ne è passato da quel dì e ciò a cui mi sembra di assistere, sia nel quotidiano, sia nel mio mestiere, è un progressivo spostamento della responsabilità da un lato, che finisce col minimizzare la nostra capacità di stare di fronte all’altro, di confrontarci, appunto.
La colpa, dunque, citando il mio maestro, è sempre del cavallo: se non riusciamo nella vita, se troviamo ostacoli, al posto di chiederci come fare a superarli andiamo in giro con la bava alla bocca alla ricerca del colpevole. Ormai incapaci di tollerare pensieri lenti e situazioni complesse, preferiamo accanirci con il cattivo di turno che ci ha messo in questa o quella situazione. Per far sì che tutto questo funzioni, però, progressivamente ci ritiriamo dalla vita in mezzo agli altri.
Tutto diventa allora, come si dice ora, “in remoto”; mi sembra di leggere nuovamente Asimov oppure Hoyle, quando ipotizzavano che l’uomo del futuro perderà di fatto gli arti inferiori non avendo più la necessità di muoversi, mentre degli arti superiori, della mano ad esempio, rimarrà un unico dito per poter cliccare sullo schermo.
Ovviamente direte che è solo fantascienza, una distopia, un’amplificazione distorta e nichilista della realtà. A volte, però, mi chiedo se tutto questo, almeno dal punto di vista simbolico, non sia già iniziato, se non si stia producendo una vita che sempre di più vive dentro di sé, produce significati, movimenti, pulsioni all’interno di sé e non fuori.
Intendiamoci, non è mia intenzione proporre un ritorno al passato, non è il pistolotto del “si stava meglio prima”; allo tesso tempo però, a mio modo di vedere, è importante cercare di avere contezza di come il nostro vivere si stia modificando giorno dopo giorno. La nostra esistenza, che etimologicamente rimanda appunto allo stare fuori (ex-sistere) si trasforma in qualcosa di strano, di nuovo e a mio parere inquietante. Come direbbe Nietzsche, si implode nel soliloquio di “io e me”, manca appunto l’elemento terzo, il mondo di fuori; il precipitare nell’abisso, dunque, è in qualche modo la logica conseguenza di tutto questo.
Perché andare al supermercato, litigare con la vecchietta che ci vuol passare davanti alla cassa? Due click sul telefono e dopo un paio d’ore la spesa ce la troviamo sulla porta di casa; perché andare in pizzeria, aspettare che il cameriere si accorga di noi, che si liberi il posto? Perché andare al cinema, cercare parcheggio, portare pazienza per gli altri che parlano, subire l’odore di pop-corn del vicino di sedia?
La nuova esistenza, che io chiamerei Insistenza (in-sistere) mi sembra molto più comoda: niente alterità, niente fatica, sudore, odore, niente sbalzi emotivi, insomma tutte quelle cose scomode che alcuni di noi chiamano vita. Non dobbiamo invece dimenticare che siamo fatti di carne, sangue, abbiamo un cuore nel petto che non riusciamo a controllare e che a volte fa le bizze, abbiamo la sacrosanta necessità di sentire il corpo, respirare l’aria, lamentarci d’inverno per il freddo e d’estate per il caldo. Se ci arrendiamo all’insistenza, se scegliamo la via del divano corriamo sicuramente il rischio che, parafrasando Walt Whitman, la morte non ci colga vivi.