Le “creature”, come in molti le chiamano: i figli partono da noi e poi vanno oltre, verso un imponderabile che non ci appartiene. E che ci spaventa se non lo vediamo per quello che è: il futuro
“Generato e non creato, della stessa sostanza del padre…”, così recita il Credo, la preghiera che è uno dei pilastri della religione cattolica, il passaggio chiave, il giuramento di fede. Trovo che faccia riflettere la distinzione tra generato e creato, poiché nella generazione il “generato” conserva tutte le caratteristiche del generante: in questo caso, parlando di Cristo, il Figlio è anch’esso divino come il Padre. Diverso è il creare: nella creazione, il “creato” è per certi versi in discontinuità con il creatore e viene messo al mondo ex-nihilo, ovvero dal nulla. Dio che dall’argilla crea l’uomo, che però non è tale senza il flatus vitae, il soffio vitale che Egli infonde all’inerte statuina che solo così prende vita.
Seguendo i pensieri, mi viene in mente e trovo singolare la questione dei nostri figli che, in buona parte del nostro Paese, chiamiamo non per nulla “creature”. Nel ritenerli tali, dunque, simbolicamente ratifichiamo la creazione dal nulla, quasi a fare un passo indietro rispetto alla possibilità di controllare la loro vita, o meglio la loro futura vitalità.
James Hillman, psicanalista e filosofo, facendo riferimento alla cultura greca ci ricorda che le nuove creature, oltre alla dotazione ricevuta dai “generatori” (genitori), hanno in sé il Daimon, ovvero l’imponderabile, quella spinta in più o in meno che – nel renderlo differente – dà nuova possibilità alla specie di immaginare e fondare un diverso modo di essere nel mondo. Allora, proprio nel ritenere i nostri figli creature, ammettiamo già da subito che partono con noi e da noi ma poi vanno oltre, nella loro crescita e nel passaggio dalla fanciullezza verso l’adultità, passando per le tribolazioni dell’adolescenza, diventeranno altro da noi. Certo, ci somiglieranno, porteranno il nostro cognome ma – e dobbiamo augurarcelo – nello scegliere di essere se stessi anteporranno per molto tempo il nome al cognome, consegnando alle nostre aspettative una certa amarezza, che ha il gusto amaro del tradimento.
Ma tradire vuole proprio dire anche trasportare, andare oltre, e quindi anche garantire l’esplorazione di nuovi continenti, di nuove situazioni.
Queste riflessioni mi portano a fare un passo ulteriore e a interrogarmi sul fenomeno inquietante che riguarda il nostro Paese e che è il calo della natalità. Da filosofo, ancor prima che da psicologo, tutte le volte che sono davanti a una spiegazione chiara e convincente non mi convinco, anzi un po’ mi arrabbio. Con questo non voglio negare tutti gli argomenti che normalmente vengono citati per spiegare come mai non si facciano più figli: è di evidenza solare che non si è fatta per tantissimi anni una politica di sostegno alla maternità e alla paternità, di potenziamento delle strutture infantili (asili nido, scuole dell’infanzia…), rendendo dunque costoso in termini economici, di carriera, avere dei figli, fino addirittura ad invertire la tendenza di tempo fa. Tutti argomenti sono assolutamente condivisibili ma che non posson spiegare tutto.
La nascita di un figlio produce nel mondo della vita di ciascuno un rovesciamento delle priorità, un fare i conti con la fragilità, l’imponderabile, la morte. Già la nascita è un evento non esente da rischio e poi il non sapere che fare, le rinunce, le notti insonni, le coliche, i denti… E poi, ancora, fare i conti con il Daimon, con le aspettative mal riposte o disattese, i pericoli… e quel loro crescere in ogni direzione, i passi avanti, quel loro segnare a ogni compleanno un capello bianco in più sulla nostra testa. In altre parole, a me pare di vedere che, nella società dei sempre giovani, nella cerchia degli Dei che non accettano il ticchettio dell’orologio, avere delle creature che con disinvoltura e vitalità marcano il nostro invecchiare sia una medicina amara ma indispensabile per curare la nostra hybris, per contrastare un mondo abitato solo da cognomi e in cui lo spazio per la sorpresa e l’imprevedibile sembra non esserci più. Tornando ad essere mortali potremo sicuramente sentirci più fragili, dunque bisognosi di avere accanto le nostre creature, unica garanzia di vita eterna nella mortalità che ci attende. In fondo, per ogni Anchise da proteggere e sostenere, c’è un Enea che lotta per la propria vita e per il proprio futuro.
già pubblicato su @fuoritestata.it