Quando una vita appare soddisfacente e ricca, cosa vuol dire essersela meritata? Come consideriamo, allora, chi la vita l’ha vista deragliare o prendere vie disastrose? Se si considera la propria vita una catena di casualità che si incastrano, la prospettiva si ribalta
Ho ben poche cose di cui posso lamentarmi. Ho una buona posizione sociale, ho una famiglia che mi sta accanto e che mi vuole bene, tanti amici coi quali chiacchiero, qualche amico con cui mi trovo molto e un paio di amici speciali, di quelli che ti cambiano la vita. Ho studiato cose che continuo a studiare e a volte persino capisco, ho un lavoro che mi appassiona così tanto da dover segnare sull’agenda le pause, i pranzi, le ferie, nel timore di essere tirato troppo dentro.
A volte ne parlo con i miei genitori e, nell’intimità del calore famigliare, in quelle situazioni in cui ti puoi permettere anche di essere un po’ meno cauto o politicamente corretto, dico loro che mi sento davvero molto fortunato. “Beh, sarai anche fortunato, però… hai studiato tanto, ti sei dato tanto da fare, sei intelligente… te lo meriti”.
Ecco, la questione del merito è una cosa che faccio davvero fatica ad affrontare: che vuol dire meritare qualcosa? Vuole dire in qualche modo aver acquisito dei diritti accessori, come quando ci sono le macchine in coda al casello e tu passi col telepass, o quando sei in motorino e non fai la coda. Cos’è il merito? Un altro nome della scaltrezza, della furbizia o della fatica, della capacità? “Domine nun sum dignus ut intres in sub tectum meum”, Signore non sono degno di farti entrare nella mia casa, dice il centurione romano a Cristo. Dunque, il merito è – invece – avere una casa degna di ospitare principi e re? E che cosa vuole dire avere una casa simile?
A conti fatti, guardando “l’erba dalla parte delle radici” come direbbe Davide Lajolo, continuo a pensare alla fortuna e non riesco a immaginare la mia vita se non come una catena quasi infinita di casualità che fino ad ora si sono incastrate decisamente bene. Cominciamo col pensare che io arrivo dalla combinazione di un uovo e di uno di quei diversi milioni di piccoli semini che hanno partecipato al concorso della vita, senza pensare che se quella sera mamma e papà fossero andati al cinema… Poi sono nato da due brave persone, che non ho scelto io, persone che mi hanno amato, nutrito, protetto, fatto crescere, studiare e via discorrendo. Sono nato in una parte del mondo in cui si può andare a scuola, in cui non ci sono chilometri da fare a piedi, in cui la gente non si spara da una casa all’altra; sono una persona con un’ottima memoria, una buona intelligenza, un grande cuore e tutte queste cose me le sono trovate, non le ho mica meritate.
Allora inizia un percorso di pensiero molto pericoloso, perché al posto di merito forse occorre parlare di dono, di un prezioso scrigno che abbiamo trovato alla nascita. Certo bisogna saper utilizzare i talenti però, innanzitutto, bisogna averli. Andando avanti di questo passo a me sembra che molti di noi – sicuramente io – abbiano un debito pressoché infinito col mondo (uso l’espressione mondo perché, nonostante le tentazioni di credere in qualcosa di più che al mondo sono tante, per ora mi ostino nella mia agnosia), un debito che dobbiamo in qualche modo cercare di restituire almeno parzialmente.
Il mondo visto con gli occhi del dono è profondamente diverso da quello visto con gli occhi del merito.
Non si tratta più di praticare la via sicura e tracotante di chi si intesta i meriti e dunque pensa che l’altro, il fragile, il naufrago, il malato, non sia della propria specie e vada dunque isolato o addirittura punito, reo di non avere il merito di farcela, di essersela un po’ voluta lui, quasi che abbia avuto scelta e abbia deciso di vivere in strada, di mettere i propri figli in balia delle onde, di finire in manicomio.
No, se guardo il mondo con gli occhi del dono allora la persona che sale sul tram facendo scostare tutti, portando con sé stracci e stranezza, quella persona ha il mio stesso odore, i miei stessi occhi, anche se una storia meno fortunata della mia. Forse posso imparare da questo, posso immaginare un mondo in cui non ci sia competizione ma cooperazione, in cui le scuole servano a chi ha più difficoltà e non a quelli che eccellono (che eccellerebbero comunque), dove si possa stare in piedi tutti, dove non sia necessario per ogni vincente avere chi perde.
In fondo, mentre il merito è solo mio e si ferma subito, il dono arriva da lontano e mi porta lontano.
già pubblicato su @fuoritestata.it