La tentazione, le prime volte, di proclamare che i giovani d’oggi sono allo sbando, alla deriva, l’ho avuta. Poi ho deciso di ascoltarli davvero.Loro si aspettano che io li annoi su come si studia, che io sappia cosa è giusto o sbagliato, che io li convinca su come si diventa grandi, così, solo perché io sono grande, forse. E invece ogni volta che presento un tema chiedo di loro: cosa pensano, come si raccontano, cosa sentono. Quali esperienze possono condividere con la classe, rispetto a quel tema? All’inizio sono diffidenti, sconcertati, poi qualcuno inizia a dire cosa pensa, qualcun altro parla di sé, qualcuno si emoziona. Alla fine di ogni incontro mi ringraziano perché li ho ascoltati. Ma io ho capito, oggi, che vogliono dirmi «Grazie perché ci hai creduto». Credere, cioè dare dignità a ciò che raccontano, legittimando la loro rabbia, le loro angosce. Credere e basta, non nel tentativo di far cambiare loro idea, non per giudicarli, non per svalutarli.
Credere è per me un modo di entrare nel loro universo di senso, riconoscere l’ansia di chi si sente pressato dalle richieste, dalle aspettative, dalle paure di un mondo “là fuori” troppo grande, troppo complesso.
«Io non conosco niente, non ho voluto conoscere niente!» mi ha detto una mattina Michela, che ha scelto la scuola che stava frequentando, un istituto tecnico, letteralmente a caso! Questa giovane quattordicenne spaurita, timida, con l’aria triste, mi ha raccontato di come non aveva avuto il coraggio di verificare che esistesse un percorso formativo più vicino alle sue aspirazioni e, soprattutto, alle sue attitudini, finendo per scegliere la scuola più comoda (vicina a casa, che permette di trovare un lavoro, non troppo difficile). «Ora sono arrabbiata con me stessa perché ho buttato via un anno!» mi dice demotivata.
«Se ci dai il permesso di sentire le nostre paure, allora è possibile anche fallire» sembrano dirmi (quando non lo dicono esplicitamente). E quella che forse è la loro paura più grande (sbagliare) diventa ammissibile. Possibile perdere, finanche perdersi, arrendersi, non volere più niente e laggiù, in quello spazio sacro ritrovarsi e riconoscersi come portatori del proprio desiderio.
Alzi la mano chi, adulto, non si sia sentito spaventato e colpevole di fronte a quella perdita di senso e non abbia quindi giudicato, proposto, spinto, condizionato.
L’errore, la mancanza, la timidezza, la performance mancata: cosa fare allora? Forse come suggerisce Eminem in una sua canzone (I’m not afraid) si può iniziare a dire ai nostri ragazzi che non sono soli. «Just let you know that, you’re not alone». Anche ora che io non capisco, anche ora nell’errore, ora che non hai progetti e desideri, anche ora: io sono con te. Questo può essere un primo passo per aiutarli, per dirla con Martin Buber, «a trasformare questo senso di mancanza in chiarezza di coscienza e in forza delle aspirazioni» per ritrovare il «coraggio di accollarsi novamente sulle spalle la propria vita» (Discorsi sull’educazione).
Se ascoltiamo davvero la loro voce e la sappiamo ascoltare in silenzio – perché a volte è flebile, impacciata, non osa – possiamo sentire che chiedono a noi genitori, educatori, formatori un confronto, un dialogo: ci chiedono più di tutto di essere un interlocutore onesto, per essere un po’ più sicuri del fatto che cadere è possibile.
«Ho cambiato scuola», mi ha scritto dopo qualche mese Michela su WhatsApp, «mi sono iscritta all’artistico! Ho ancora paura, ma mi sento felice».
Buona continuazione, Michela.
®️già pubblicato su: www.fuoritestata.it