Fare un passo indietro, lasciare un ruolo professionale o sociale, e godersi l’atterraggio…
Felicità, dea sfuggente, inafferrabile, presenza sempre temporanea: vi proponiamo il secondo contributo sul tema, dopo l’articolo del nostro amico Juaquin Otuvas.
E noi che pensiamo la felicità come un’ascesa, avremmo l’emozione che quasi ci smarrisce di quando cosa ch’è felice, cade.” (Rainer Maria Rilke)
Molto prima che Fuori Testata chiedesse contributi sulla felicità avevo scelto la chiusa della X Elegia di Rilke come commento (più eretico che poetico, ahimé) al mio profilo di WhatsApp. Povero Rilke: lui opponeva il sussurro della lirica al fragore della tecnica e io saccheggio i versi del suo capolavoro per incastrarli in un prodotto che certo avrebbe detestato.
A mia discolpa posso solo dire che quelle parole mi hanno colpito e affondato tanti anni fa. Anzi, forse dovrei dire che mi hanno stregato. Sì, la poesia ha tessuto l’incantesimo. Ha spostato il baricentro che nel mio immaginario aveva la “caduta”. Grazie a lei, il suolo pietroso dove c’erano soprattutto errore, perdita e regressione ha ceduto quote sempre più ampie a una zona umida, che ospitava una nuova libertà. La libertà di cadere senza crollare, né morire. Di rompermi per accogliere nello spazio cavo creatosi dentro di me un amore che riusciva a mettere radici. Cadere poteva significare essere felice.
Questo snodo lontano nella mia storia mi ha insegnato a cercare “lucciole” di felicità nelle pieghe boschive di tante cadute. E poi, come succede quasi sempre, le lezioni di vita apprese – non senza un tirocinio di sudore e dolore – sono diventate un tramite per il mio lavoro. Imparare a cadere ha schiuso spiragli di felicità alle persone che affiancavo per un pezzo di cammino.
C’era chi faceva cadere dal piedistallo l’ideale dell’io al quale aveva sacrificato vita e slanci. Per loro arrivava il sapore acerbo di una felicità senza prezzo: quella del prigioniero finalmente a tu per tu con il cielo, dopo un tempo lunghissimo a fare i conti con il soffitto della cella e un tiranno interiore che nessuna punizione bastava a soddisfare.
Ho incontrato le felicità semplici di persone che cadevano addormentate. Riallacciavano l’alleanza con il sonno quando rinunciavano ad aderire a una parte sola e ammettevano che l’identità è franta. Che il manager performante può permettersi di essere anche un amico tenerissimo, così come la madre più amorosa può concedere sfizi alla donna e mostrarsi bella senza sentirsi in colpa.
Qualcuno ha condiviso con me la felicità nata nell’attimo in cui
si cade da se stessi perché ci si lascia andare: a una risata, a una battuta, a un gesto sopra le righe, all’impulso di fare una domanda che suona stupida. L’umorismo è ingrediente prezioso di tante forme di cura.
Al fondo di tutti questi passaggi respirava il significato primo della parola “felicità”, che ha in sé un nucleo di generazione (felix in latino vuol dire anche fertile ). Strano, ma vero: cadere, che significa invece “venire dall’alto in basso, portati dal proprio peso”, aiuta a essere fecondi.
Si cade e si fabbrica l’impasto della propria personale felicità quando ciò che ci ha forgiato viene assunto e ricompreso. Quando il peso di ciò che siamo non è il fardello, bensì la solidità che aiuta a far accadere le cose. Quando riusciamo a fare qualcosa di quello che altri hanno fatto di noi, come direbbe Sartre, ossia ci appropriamo del passato e immaginiamo il futuro nel presente, scegliendo la nostra strada. Quando seguiamo la nostra cadenza, quella “canzone individuale” che secondo il musicologo Marius Schneider ognuno di noi ha ricevuto dagli dei e che pure ha in sé una sorta di diapason per accordarsi alle infinite melodie di chi incontriamo.
Possiamo infine scoprire tracce di felicità se accettiamo che sia nell’ordine dell’esistenza fare un passo indietro e lasciar cadere un ruolo professionale o sociale, come cade talvolta un albero nella foresta, perchè le condizioni e il terreno sono mutati. Questo può essere il momento aureo. L’occasione (l’ultimo derivato del verbo cadere) partorita dal caso perché ci procuriamo una felicità che altrimenti non avremmo mai conosciuto.
già pubblicato su @fuoritestata.it