CURIOSO PARADOSSO: SE VOGLIO BENE ALLA MIA CICCIA POSSO RIUSCIRE A ELIMINARLA

Se dico che ti voglio bene, poi tu non fai il tuo dovere. La mia mamma era così: «Meglio non dirglielo», pensava, «se no si rammollisce!». Questa idea faceva il paio con l’altra, subito dopo un bel risultato in università: «Non le dico che è stata brava, altrimenti non studia più». Certo la motivazione così faceva un po’ acqua, lo sforzo era enorme, la delusione quasi altrettanto cocente (e anche per un buon risultato). E così, per un lungo periodo, sono cresciuta con la convinzione che le cose ottenute con il sacrificio e l’abnegazione siano le uniche ad avere davvero valore, quelle che contano nella vita. Restando all’interno di questa equivalenza, raggiungere obiettivi troppo semplicemente, seguendo magari la predisposizione naturale – che altro non è che il desiderio – diventa allora un po’ cedere alla pigrizia, alla faciloneria, o, come veniva detto a me, a troppa superificialità.
Ho ritrovato spesso questa ingiunzione impressa nella mente delle donne che incontro e che vogliono iniziare a fare una dieta per perdere peso. «L’unica cosa che mi occorre è la forza di volontà», mi sento ripetere. Come dire: combattere, tenere duro è la via, basta solo sapere come fare. Un nuovo paradigma all’orizzonte: per avere maggiore benessere occorre un grande sforzo.Una strada complessa quella della dieta: rinunce, sacrifici, guerre contro se stessi e, nella maggioranza dei casi, abbandoni e, quasi sempre, per knock out! Il punto della vittoria, ovviamente, lo mette a segno il cibo, il seduttore che blandisce, facendoci male. «Sì, lo so che non mi fa bene, ma quanto mi piace!». Piacere contro dovere: cento a zero. I chili aumentano e la frustrazione diventa ingestibile. Una frustrazione che mina spesso anche l’autostima, perché se la convinzione è «Posso perdere peso se ho abbastanza forza di volontà», è fin troppo evidente che 20 chili di troppo dimostrano anche mancanza di midollo!Mi occupo di benessere da diversi anni e so che la buona volontà è cattiva consigliera, in questo caso: non serve per perdere peso e ritrovare una buona forma fisica. È una lotta impari che sovente non ho visto andare a buon fine. Perché nel cibo si trova un piacere immediato, prêt-à-porter (o meglio, pronto-per-essere-consumato), che appaga e offre una rassicurazione spicciola ma efficace alla quotidianità costellata di doveri. Ascolto racconti di donne che sono frenetiche tassiste, impavide infermiere, inossidabili facility manager, incrollabili sul lavoro, madri imperfette ma sempre pronte a ricominciare giorno dopo giorno. Si arriva, talvolta, persino al paradosso: i pasti dei figli rappresentano la calibrazione perfetta di carboidrati, proteine, fibre, grassi, ma per le madri un panino al volo, oppure «Oggi salto»: il digiuno perfetto per procurarsi poi, in preda alla drastica carenza glicemica, cibo-spazzatura, cibo-di troppo, gustoso-cibo.

Ho l’impressione che tra dovere e piacere ci sia piuttosto una terza via: introdurre la variabile volersi bene;

non domani, quando avrò raggiunto il peso ideale, ma oggi con i chili di troppo, con le forme tutte “sbagliate”, con quell’ingordigia che fa buttare sul cibo senza nemmeno pensare. Un primo passo rivoluzionario, rispetto alla forza di volontà, perché «Se voglio bene a questa mia parte ingorda e senza senso, poi lei prenderà il sopravvento e sarà fuori controllo». Eccolo qui il vecchio refrain con cui ho aperto queste righe; eccoli i suoi effetti! Come se l’amore di sé, l’amore per tutte le nostre parti, avesse questa spiacevole controindicazione: ingigantire mostruosamente le parti ombra! E invece leggendo Carl Rogers possiamo ritrovare quel «curioso paradosso, per cui quando accetto me stesso per quello che sono, allora inizio a cambiare».

La motivazione, a mio avviso, rischia di fallire se parte da un dovere (un altro!) o da uno sforzo smisurato. Credo che possa trovare maggiori energie (maggior piacere?) se nasce dall’autorizzazione che diamo a noi stessi a essere proprio così come si è, dando cioè diginità anche alle proprie imperfezioni, che in fondo in qualche modo ci servono. Da lì, dall’accettare sé e le proprie difficoltà, si possono fare quei passi di un cammino che sicuramente è faticoso e doloroso, ma che non può prescindere dall’amore di sé.

®️già pubblicato su: www.fuoritestata.it 

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