Il Covid ci ha espropriato dei gesti di affetto. Ci scopriamo apprendisti di un nuovo linguaggio della prossimità.
Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Inciampo in questi versi di Mariangela Gualtieri una sera, e la mia mente non li lascia per giorni. I pensieri vengono all’inizio calamitati dall’apertura – sii dolce con me. Un appello a rispettare la delicatezza di ogni essere umano. Poi s’impigliano nell’accenno al tempo. Ovvio. Da un anno a questa parte, il tempo pare aver sospeso le sue estasi: quell’articolazione di passato-presente-avvenire che tiene insieme il filo delle nostre vite e, mentre ci presta lo stampo in cui diamo forma all’esperienza, regala ai pezzi della nostra identità il senso di un continuum. Se l’oggi è uniforme e dilatato, sembra ancora più breve il “tempo che resta”.
La frase che però più di tutte mi risuona dentro, sottile e inaggirabile come un’eco, è “non potremo fare carezze con le mani”. Quel verbo coniugato al futuro mi colpisce in tutta la sua fattuale attualità. Lo fa nei giorni che precedono una data significativa, quando mi trovo a dover negare il gesto più semplice dell’amore a una persona cara che proprio di gesti ha bisogno, non potendo più padroneggiare le parole.
La carezza, lo sappiamo, è incompatibile con il distanziamento. Il toccarsi è un noto moltiplicatore del virus, prima ancora di essere messaggero di affetto. La ragione lo accetta e osserva la regola. Ma la mia parte emotiva, quella che il mondo muove con le sue provocazioni e le sue seduzioni, non può non avvertire in questa misura di tutela (l’esilio della vicinanza dei corpi) un’ombra gelata.
Ammetto che nel tredicesimo mese di pandemia quest’ombra occupa parecchio spazio. Resuscita tutta la mia nostalgia dell’imperfezione, per usare un’altra immagine poetica della Gualtieri. L’imperfezione del contatto fisico: talora impacciato, fuori tempo, schermato da qualche timidezza o proiettato verso un accordo che non sempre arriva. Eppure preziosissimo. Insostituibile, direi, tutte le volte in cui il linguaggio collassa: nel dolore e nell’innamoramento, nel buco nero della solitudine come nella gioia effimera dell’istante, in certi passaggi stranianti del disagio psichico come nella nebbia mentale, spesso non meno allucinata, di tanti anziani.
Qui, dove ognuno fa i conti con la propria fragilità, è l’alfabeto primordiale del corpo a salvare dalla vertigine. E le mani sono la prima frontiera: il pelle a pelle che ci introduce l’uno all’altro passa per le mani. Il loro linguaggio àncora al porto della relazione oltre la parola.
Sarei morta anch’io, se non fosse stato per la sua mano che mi agganciava alla vita, rivela una paziente allo psichiatra Irvin Yalom. Succede di sperimentare l’importanza del gesto a chi opera nell’aiuto. Nel mio piccolissimo, è accaduto anche a me.
Ma ciò che mi porta a scrivere queste righe è piuttosto un dettaglio biografico, legato alla persona che ora non posso avvicinare come vorrei io e come vorrebbe lei. Ricordo uno studio medico, parole vaghe a tratteggiare un’anamnesi, le sue mani che tenevano la mia e la accarezzavano con infinita pazienza. Ecco, la carezza è questo stare con l’altro senza stringerlo. Un tocco che ricerca al di là di ogni volontà di potere o di possesso, uno sfiorare che – nota Sartre – fa nascere la carne dell’altro, la riconosce e le trasmette il mantra tattile: “qui sei al sicuro”.
Come rimpiazzare oggi la carezza che vogliamo tutti nella sera della vita? Come posso ricambiare io il gesto di allora, che oggi non può essere replicato? Non ho riposte. Non ho allenato consapevolmente nessuna strategia. Credo mi sia capitato quel che accade quando si indebolisce uno dei cinque sensi e gli altri, per compensazione, diventano più ricettivi e prensili. In mancanza di carezze fisiche, il mio sguardo su questa persona è diventato una carezza. La parola si è svestita di orpelli, ha preso il largo dai significati, ha rinunciato a dire. E’ diventata la parola corporea di cui parla Jean-Luc Nancy Nancy: una parola che è “più voce che contenuto”. E la voce, con il suo timbro unico che non sa mascherare l’emozione ed esprime familiarità senza doverla spiegare, mi auguro culli, strappi al richiamo di fantasmi non nominabili, faccia sentire amati e al sicuro. Come una ninna nanna.
già pubblicato su @fuoritestata.it