Se un discorso ci sembra difficile non ci viene mai il dubbio che sia colpa della nostra incompetenza?
Avvertenza: la lettura di questo articolo è riservata a tutti quelli che hanno tempo da perdere in riflessioni e meditazioni e sconsigliata a quelli che vanno di fretta.
«Il linguaggio è la casa dell’essere ed i suoi custodi sono i filosofi ed i poeti», così Martin Heidegger nella celebre Lettera su l’umanesimo, parola che suona come una indicazione sempre valida, un faro gettato nel buio della radura del senso.
Il filosofo sembra dunque dirci che il linguaggio non è solamente una modalità di comunicazione, un modo per farci capire. Il linguaggio è la condizione di possibilità di pensare, è il dispositivo ed al contempo il limite del nostro produrre significati e pensieri.
Il linguaggio traccia il perimetro oltre il quale la stessa operazione del pensare sarebbe impossibile… senza linguaggio possiamo sentire, agire e reagire ma non pensare, il nostro sentire ed il nostro agire non hanno un contenitore di senso, sono oggetti consegnati sullo sfondo dell’essere.
Nominare invece consegna la situazione all’esistenza, staglia dal fondo con luce ferma e netta l’oggetto.
L’antropologo e filosofo Levi Strauss, fu colpito dal fatto che la popolazione Tahitiana avesse un numero di suicidi anomalo e sorprendente per quella popolazione.
Studiando il linguaggio dei Tahitiani con sorpresa scoprì che non c’erano parole che descrivessero la sofferenza psichica, c’erano parole per descrivere un male fisico ma non ve ne erano per la sofferenza esistenziale, dell’anima ecc.
Nell’impossibilità dunque di avere un contenitore per poter rendere conto di un certo tipo di dolore allora la condotta suicidaria sembrava a Levy Strauss inevitabile o perlomeno più probabile.
Tornando ai nostri tempi è opinione diffusa che stiamo attraversando situazioni sociopolitiche in cui la semplificazione del linguaggio, la popolarizzazione delle espressioni più massificanti e talvolta triviali sia di casa.
Ma allora in quale casa dell’essere siamo finiti?
Ogni volta che semplifichiamo il linguaggio corriamo il rischio di ridurre il perimetro in cui produciamo significati, depotenziamo le nostre capacità di comprendere la complessità della mondità (termine heideggerriano), ovvero del sistema delle rappresentazioni di significato.
Abbiamo però fatto addirittura di peggio, abbiamo suggerito che tutte le volte che qualcuno fa un discorso difficile da comprendere il problema non sia la nostra scarsa veduta ma che il nostro interlocutore voglia in qualche modo non farci capire, che sia insomma disonesto, che peschi nel torbido o, per usare espressioni di alta caratura politica contemporanea, ci stia perculando con una supercazzola.
Pensate allora nel tempo quante persone cattive abbiamo frequentato: forse il più perverso di tutti fu Dante con quella ossessione delle 11 sillabe come a dire che era l’unico modo di farsi capire, Cartesio poi con quella storia del dubbio come metodo, forse è per quello poi che facciamo fatica ad andare a comprare le cose al supermercato, e Montale poi con quei milioni di scale, manco non ci fossero gli ascensori…
Certo queste espressioni ci sono sempre state ma in qualche modo erano relegate ai bassifondi o usate da qualche intellettuale di rottura per graffiare, per rompere la tela di un quadro troppo preciso e borghese.
Il salto di qualità (verso il basso ovviamente) è invece suggerire che abbiamo bisogno di meno parole, che tutto quello che è complesso è un artefatto manipolatorio… come bambini viziati allora ci perdiamo lo spettacolo dello stupore e della comprensione, tutti presi dall’attenzione di scoprire il trucco del mago ci perdiamo la magia.
E che fine hanno fatto i custodi?
I custodi sono stati sostituiti da gente meno pallosa e più smart, l’accademia della crusca (che poi si sa che la crusca farà bene ma non è per niente buona) verrà sostituita dal correttore di Word che tra l’alto si autoaggiorna senza star lì a discutere e a menarla.
E i filosofi ed i poeti?
E basta con ’sti personaggi desueti che stanno lì a farsi le pippe su ogni cosa e che poi spesso sono vecchi, sordi, e si lavano poco…
I poeti poi che non si capisce mai come e che cosa vogliano dire…
Rinnoviamo!!!
Ci vuole gente più vicina a noi, che parli semplice, gente che si fa capire, che non ci faccia sentire a disagio.
Al posto dei filosofi e dei poeti allora facciamo che ci mettiamo i politici (soprattutto se belli rozzi e appassionati di divise) e i comici da botteghino.
Allora voglio vedere chi non ci capisce!
Sui social qualche settimana fa ho potuto leggere una rivisitazione di Montale che più che una provocazione a me sembra l’emblema del programma nazionalpopolare della semplificazione del linguaggio:
«ho sceso dandoti il braccio milioni di cani…»
Che ridere eh, tutto sommato a stare sul ponte del Titanic non si sta neanche tanto male.
®️già pubblicato su: www.fuoritestata.it
Caro Massimo,
se posso permettermi una considerazione a margine del tuo articolo, pur condividendolo totalmente, trovo che lasci aperto un interrogativo.
Premetto che non credo tu voglia suggerire che nessuno vada mai percolando con supercazzole, piuttosto attiri l’attenzione sulle conseguenze della ipersemplificazione del linguaggio che in definitiva appiattisce sia chi la promuove, sia chi la subisce. La domanda è: con che criterio individuare i “percolanti”, e non è una domanda accademica: ne ho in mente tanti ma segnalo solo il nostro presidente del Consiglio che – magari con scopi che qualcuno considera addirittura nobili – parla e non dice, o meglio più parla meno dice. Oppure, detto in altro modo: non credi che l’appiattimento linguistico, dalle nostre parti, trovi una concreta giustificazione nel fatto che chi domina gli usi linguistici (in Italia la burocrazia e oggi in particolare quella speciale burocrazia che è il sistema dei mezzi di informazione di massa), abusi da sempre di questa posizione dominante con finalità manipolatorie?
Aspetto fiducioso e paziente un tuo prossimo articolo, per la risposta.
Concordo con quello che dici e il pessimismo della ragione mi porta a pensare che sostanzialmente semplificare serva a controllare meglio.
Penso che però tutto sommato possa rappresentare anche un boomerang sul lungo periodo.
Cerco di spiegarmi: un linguaggio con meno parole descrive meno mondi, fa accedere a meno stati e strati dell’esistenza. Noi pensiamo per mezzo del linguaggio, esso non descrive i nostri pensieri ma li produce.
In ultima analisi dunque penso che la distanza tra chi pensa e si ostina a pensare e chi grufola nel linguaggio beta (cosi lo chiamerebbero i programmatori) diventerà sempre più incolmabile fino a quando probabilmente la differenza di potenziale farà scoccare qualche scintilla e darà fuoco alle polveri. D’altronde Gramscianamente io penso che la cultura ed il linguaggio siano espressione del potere ma che proprio da questi mezzi possa nascere una controcultura, un grufolare che voglia essere meglio, che voglia elevarsi, che senta il vuoto ed il freddo della povertà nel quale si è caduti.
Ricominceremo da li, ostinati ed affamati come sempre.
Grazie amico
Come dice Teo c’è chi parla tanto ma non dice nulla : il punto non è la quantità di parole e io credo che il gap di cui parli , Massimo, crescendo lascerà sconfitti quelli che parlano con troppe parole e non si fanno capire . il mondo va sempre più verso la semplificazione … che non vuol dire semplificazione dei concetti e del pensiero. Farsi capire con poche parole é un pregio e non um difetto e molti dovrebbero imparare questa lezione . Infatti non trovo giusto lasciare le persone intontite di parole e impedire loro di capire .Non farsi capire é proprio lo strumento e l’ espressione del potere e non il linguaggio e la ciltura di per sé. Il fascino del linguaggio , che è possibilità infinita , è quello di far comprendere a tutti un pensiero anche complesso e il nostro cervello e il nostro linguaggio sono in grado di farlo . Non c’ è bisogno di troppe parole .