Come è possibile che s’instauri un rapporto di familiarità con una persona mai incontrata?
L’abbraccio alla grande artista ha unito tutta Italia, come fosse scomparsa un’amica o una parente. Cosa ci dice questo rispetto all’economia delle nostre relazioni?
Gran parte della popolazione italiana si è ricompattata da Trieste in giù alla notizia della scomparsa di Raffaella Carrà. Io ho saputo grazie a un messaggio. “E’ morta la Carrà. Mi dispiace”. Subito è resuscitata una scena: mia sorella in salotto a tre anni, mentre osa le mosse di uno dei balletti più celebri “rubato” alla soubrette, agita i ricci neri e nella palla di vetro del suo futuro si vede grande, biondissima e ammirata.
Nel giorno in cui lasciava il palco del mondo, la Carrà mi è parsa intima in virtù di quel quadretto che si rimaterializzava. Qualcosa di analogo deve essere accaduto a tanti, perché Raffaella è stata volto storico e iconico per intere generazioni. Quando entri nel dizionario – Carrambata è una parola che anche la Treccani recensisce – hai varcato la soglia del mito. Per arrivare lì però, lei è prima entrata nelle case delle persone e nel loro lessico familiare. Si è conquistata un posto a tavola grazie al talento, al carisma, al cuore, alla versatilità che sapeva superare le tendenze, al suo impegno di artista e di donna. Merita tutto il tributo che le è stato offerto.
Su un piano più ampio, però, occorre forse ricordare che il lubrificante dei meccanismi psicologici visibili in controluce, dietro l’onda emotiva che ci ha lambito un po’ tutti, sgorga dalla scatola magica della televisione. Una forza impersonale, oggi confluita in tecnologie assai sofisticate, sfrutta da oltre mezzo secolo lo stesso principio: la frequenza con cui vediamo qualcuno ce lo rende vicino anche se lui non vede noi; l’esposizione continua a un messaggio ci dispone a introiettarlo; la costanza con cui i social propongono volti, nomi e gesti ci influenza davvero, nel senso che sposta le coordinate dell’intimità. E in un’epoca di grandi solitudini, quando la rete sociale è slabbrata o ridefinita nelle distanze tra le maglie, questo movimento non è senza conseguenze. Guida ad accettare pallide (foto)copie di relazione o, peggio, a scambiare la copia con l’originale. Per nostalgia, senso di vuoto, paura.
Al di là del caso specifico, la domanda che preme allora è:
possiamo davvero sentire intima una persona che non ci conosce, né conosciamo se non attraverso la schermatura dell’apparato mediatico? In altri termini, può l’intimità fare a meno della reciprocità?
François Jullien ci ricorda che nel campo semantico della parola intimo compaiono due accezioni. Intimo, superlativo di interno, è ciò che è racchiuso nel fondo più riposto di un essere – nella sua essenza, direbbero i filosofi – e insieme quello che lega tramite ciò che c’è di più profondo e inattingibile ai più. L’intimità apre il singolare e il suo segreto a una dimensione altra. Scava nell’abisso del soggetto per creare una fessura inter-soggettiva e lasciare che Altri vi si insinui.
Capiamo subito che l’intimità è di pochi. Per esporre l’essenza bisogna innanzitutto spostare la maschera che presentiamo al pubblico e poi disarmare l’apparato difensivo con cui andiamo nel mondo. Affinché lo spazio liminare dell’intimità si crei tra le persone – in quello zwischen che Martin Buber disegna a terreno di incontro – ciascuno deve prima tornare a sé nel pudore, e poi eleggere un altro (pochi altri?) a depositario della sua nudità e del suo mistero. C’è una nota esclusiva nell’intimità, che rifiuta il genere neutro e non può spalmarsi sulla folla. Così sono intimi gli amanti che decidono di stare dalla stessa parte del fiume della vita e si scoprono intimi gli amici, che per Aristotele non hanno bisogno di legge, perché a vincolarli c’è il nodo più forte della fiducia.
L’intimità è anche il frutto di una circostanza e di un’intenzione. La circostanza – un’esperienza iniziatica, l’attrazione verso un altro essere umano, un dolore che affratella – dà l’innesco. L’intenzione trasforma il caso in occasione e scommette sull’assenso dell’altro. Situazione e scelta possono allora cooperare nel far sì che diventino intimi due boy scout all’accensione del primo fuoco, i compagni di stanza a un day hospital, il cliente e il suo terapeuta quando l’uno mostra all’altro la propria cicatrice, dopo aver parlato per settimane del più e del meno.
Cosa abbiamo perso nello stirarsi del concetto di intimità, che lo strapotere del virtuale ha accellerato? Forse la voglia di correre quel rischio che è l’ingrediente primo della relazione. Illanguidito e pervertito, il rischio sopravvive nella ricerca di esperienze estreme, nella rincorsa della supervelocità, in certi riti giovanili al limite della patologia. Di rado però ci si avventura nel pozzo senza fondo dell’umano, dove si determinano il senso dell’esistenza e quanto c’è di più prezioso in noi: il nostro essere fragili, rifiutabili e sperduti, bisognosi di una mano e di una voce che riscattino dalla ferinità del mondo. Storditi nel cicaleccio del gioco di società (così lo chiamava il fotografo Gastel), patiamo l’ansia del silenzio. E ci dimentichiamo che l’intimità ci vuole appartati e ricettivi, sensibili quanto basta perché sullo sfondo del riserbo le nostre antenne captino i segnali degli altri e noi si abbia il coraggio di tentare con qualcuno un gesto di avvicinamento che ci trovi solidali.
Ecco, Raffaella ci è stata per lungo tempo familiare, non intima. Intima lo è forse diventata nel lasciarci, in quel finale senza spettatori. Qui l’adesione personale che non avevamo esplicitamente dato prima, mentre lei entrava nelle nostre case, l’abbiamo tradotta in decisione di partecipare come potevamo al suo saluto. Ora è tempo di raccogliere il suo invito a mettere insieme audacia e rassicurazione per prenderci il rischio, rivoluzionario come lo è stata lei, di (ri)costruire la trama dell’intimità. Senza trucchi né paillettes. Sapendo che noi tutti possiamo perdere la partita delle relazioni, ma anche che in fondo in questo gioco non si perde mai davvero.