È figlia dell’ansia e genera ansia la mania di misurare con tabelle, graduatorie, statistiche la crescita dei bambini
Inizia subito, appena il bimbo esce dalla sala parto. Viene lavato scaldato visitato e misurato.
Peso, altezza, carnagione, reazione agli stimoli visivi, uditivi, cinestesici.
Poi lo portano ai genitori, sulla culla c’è un cartellino, nome, cognome, peso…
«Mio figlio è all’ottantesimo», occhi sgranati, tutti a felicitarsi, alcuni con una punta di invidia. Io penso «Be’ si vede che ci sarà una gara, alla fine chi è al percentile più alto vincerà un premio, il pannolino d’argento».
Ti sembra che finisca lì, che sia solo una specie di gioco nevrotico tra genitori e medici, un modo per lenire l’ansia del non sentirsi abbastanza attenti al proprio figlio.
Tra un po’ chi ci penserà più ai percentili, parola criptica, una specie di unità di misura del nulla?
Invece no: asilo nido, mio figlio a 14 mesi non cammina ancora e allora il circolo delle mamme, per bocca della socia più disinvolta emette la sentenza: «Be’ dai anche se è un po’ in rit…». La incenerisco con lo sguardo, e lei fortunatamente si blocca: non riesce a terminare la parola che a me evoca tutta una serie di immagini, nessuna delle quali ricevibile. Una perifrasi infinita per dire che poi alla fine non è che tutti debbano arrivare contemporaneamente all’obbiettivo, insomma alla fine siamo tutti uguali, anche quelli che non arrivano subito.
Comunque devo essere stato sia pur minimamente contagiato: lo porto dalla pediatra che non conosco ancora bene e mi appare una figura asciutta, sbrigativa, poco intenta al garbo e poco ricettiva delle suppliche ansiose dei genitori. Dico: «Certo che a 14 mesi non cammina ancora…». Risponde serafica: «Be’ per ora portatelo voi in braccio…». Geniale. Rimango interdetto da tanto buonsenso, tanto voler stare in superficie, non voler contaminare con tabelle, graduatorie, statistiche la vita che cresce.
Certo non posso negare un po’ di perplessità perché alla fine non mi ha detto a che percentile ci siamo posizionati nel ranking milanese dei bambini di 14 mesi. All’uscita sento in sala d’attesa una mamma che dice a un’altra: «Io vengo anche qui ma ho la mia pediatra personale che è più precisa, al passo con i tempi…».
Il tempo passa e qualche mese fa, all’età di 3 anni e poco più, mio figlio ha imparato ad andare sulla bici senza le rotelline. Sfreccia in piazzetta davanti alla giuria delle mamme del circolo della misurazione (si tratta di una società occulta, pagata probabilmente dai servizi segreti, che ha il compito di stilare e aggiornare costantemente la misurazione di tutti gli esseri umani). Una esprime il suo apprezzamento: «Complimenti, quanto è avanti suo figlio!». Io cerco di spiegare: «Il fatto è che ha imparato prima ad andare su una bici senza pedali che quindi stabilizzandolo nell’equilibrio gli ha fatto saltare la fase delle rotelline…». Le signore però non si lasciano fuorviare e prendono la mia risposta come un atteggiamento di falsa modestia.
Alla fine dell’ultimo giretto mio figlio ci raggiunge e mi chiede: «Papà stamattina sei andato a collele all’Alena?». Già perché il piccolo, forse per la vicinanza con l’enclave cinese di via Paolo Sarpi, non pronuncia ancora la erre.
Si stacca allora dal gruppo delle valutanti una figura ieratica, seria come un domenicano, sobria come un enologo astemio e mi dice: «Carino il bimbo, avete pensato di farlo vedere da un logopedista? Se volete io ne conosco uno che fa miracoli».
Fatico a dominarmi, prendo fiato e riesco a rispondere con garbata affettazione: «No grazie, il piccolo ha la fortuna di avere un padre psicologo. Ho pensato che quando avrà dieci anni se non sarà guarito gli faremo fare l’elettroshock, che tra l’altro previene la depressione in età adulta».
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