Da psicologo ecco il mio provocatorio contributo al problema dell’immunità di gregge
“Ma voi che siete psicologi che cosa pensate di fare per chi non si vaccina, per quelli che sostengono esserci una dittatura sanitaria, una sperimentazione su larga scala di farmaci pericolosi?”
“Ma voi che siete psicologi cosa pensate di fare per i giovani violenti che non tollerano le regole?”.
Strano il nostro mestiere, inizialmente molti pensano che siamo tutti mezzi psico-qualcosa, che in fondo cosa ci vuole per capire cosa frulla nella teca cranica di chiunque; molti poi pretendono che tiriamo fuori dal cilindro il coniglio giusto per affrontare e risolvere, con la sola imposizione delle mani, qualsivoglia problema.
La conclusione è ovvia: siccome i problemi permangono allora non serviamo a nulla, non risolviamo, non guariamo. Spesso le aspettative dei miei clienti sono analoghe, ovvero che io dica loro cosa fare, che li convinca a fare la cosa giusta anziché ripetere gli stessi errori.
Qualsiasi pratica invece a mio modo di vedere ha il proprio ambito, i propri punti di forza ed i propri limiti e, certamente, la mia professione è per sua stessa costituzione un linguaggio debole, un sommesso belato che cerca di farsi strada nella giungla delle voci forti e sicure.
Certo non è semplice ammettere i propri limiti, si teme di deludere, di fare la figura degli incapaci dei deboli, dei parolai…
Per mantenere credibilità alla nostra professione credo che solo rimanendo all’interno del nostro perimetro possiamo trovare un senso ed essere davvero utili.
Prendiamo ad esempio la questione attuale del rifiuto di alcune persone di recepire l’obbligatorietà della vaccinazione o almeno l’esibizione del green pass per accedere a luoghi della comunità.
Come psicologo ed ancor prima come filosofo sono molto interessato a capire perché una persona non senta il dovere di dimostrare di non essere portatore in alcun modo di covid-19 ma anzi ritenga che questa prova sia un obbligo dettato dalla tirannia medica, una forma di discriminazione.
Arrivare a paragonare la stella di David tatuata sui vestiti ad un certificato che ti dice che non sei malato o pericoloso per gli altri mi appare un segno di immaturità crassa e abissale, addirittura assimilabile a una forma di ritardo nella cognizione.
Penso dunque che questa sia una sfida davvero epocale per il mio claudicante mestiere, ma sono disposto a provarci, ci debbo provare, con convinzione e ostinazione, con la voglia di aiutare anche chi non è consapevole.
Questo però non c’entra nulla con l’obbligare, il mio mestiere è convincere non obbligare, creare spazi di pensiero non coercizione.
Spetta ad altri obbligare; i signori della politica non possono delegare a nessuno tantomeno a noi psicologi, il compito di arrivare all’immunità di gregge con un’adesione unanime al vaccino. Ci vorrebbero i tempi della maturazione culturale, decisamente incompatibili con il progredire della malattia. Io mi sento però di fare una mia personale proposta: una volta effettuata la vaccinazione obbligatoria io mi candido come volontario senza percepire alcun introito ad aiutare i no vax, forzatamente vaccinati, ad elaborare il trauma causato dalla dittatura sanitaria, e a portarli con gradualità a convincersi che siamo liberi di fare tante cose ma, quando si tratta di stare in comunità, occorre anche rendere conto agli altri.