Su sentieri interrotti per aiutare chi soffre

«… Viandante, non c’è sentiero.
Il sentiero si fa camminando».

Antonio Machado

Parlami di te. Il titolo italiano del film di Hervé Mimran è una specie di richiamo. Suona come una dichiarazione di interesse per qualcuno e al contempo lascia illimitato potere di decisione su cosa dire e cosa tacere. Vi colgo quello che tutta la vicenda poi conferma, una metafora della relazione d’aiuto. E forse è per questo che la pellicola, al di là dei suoi limiti, tocca più di una corda.

Un primo parallelismo tra il film e il prendersi cura pare fin scontato. Una professionista accompagna qualcuno che «si è completamente perso» a ritrovare la via e, mentre lo affianca, attraversa un proprio tempo di ricostruzione e di evoluzione. Qui sta il fascino del nostro mestiere, in cui i ruoli sono definiti e le regole di ingaggio chiare, ma che pure affida all’incontro tra esseri umani, oltre il recinto delle competenze, la responsabilità di catalizzare il cambiamento. Se l’incontro è autentico, la trasformazione è sempre reciproca, ci ricorda Jung.

Più sottili, altre sollecitazioni finiscono con il farmi sovrapporre alla trama le vicissitudini di persone incrociate nella mia attività. E l’elemento di contatto è il senso di esclusione.

Ispirato all’autobiografia di Christian Streiff, il film racconta di Alain, manager di alto livello che un ictus costringe prima a fare i conti con l’ammutinamento del linguaggio, poi a subire l’espulsione dalla cabina di comando che gli aveva garantito prestigio e potere. All’improvviso è fuori. Dalla comunicazione, dal circuito delle persone che decidono, dalla sua azienda. E ha bisogno di aiuto.

Nel gruppo che ho seguito di recente, nessuno aveva il profilo di Alain. Tutti però condividevano il vissuto di separazione con cui lui lotta per una parte del film. Anche loro manifestavano una forma di afasia, che non era il blocco della parola causato dall’ictus, ma il collasso della voglia di dire. Un silenzio diventato l’ultima trincea per difendere la propria vita dal saccheggio di sguardi intrusivi. Molte di quelle persone – ricordo R., una moglie malata e un passato di operaio specializzato, M., magazziniere con la passione per la musica, F., collaboratrice editoriale colpita dalla crisi – avevano anche affrontato la stessa cesura che ferisce Alain: uno scollamento dal mondo del lavoro, in seguito al quale si erano sentite respinte e inadeguate.

È come una strada con lavori in corso. Cerchi un altro modo per arrivare all’obiettivo”.
Nel copione, questa battuta, pronunciata dall’ortofonista che aiuta Alain a recuperare il linguaggio, segna il momento dell’accettazione dell’ostacolo e l’inizio della risalita creativa per il protagonista.

Sembra un invito a puntare lo sguardo sulle risorse, da consegnare a chi ci chiede una mano. Se però rovesciamo la prospettiva, vediamo come il messaggio del film educhi soprattutto noi che ci occupiamo di aiuto a un apprendistato di umiltà. Alain, smesso il completo da dirigente, abbandona anche gli abiti mentali su cui aveva costruito il successo. Lascia la strada maestra, si perde, impara a pensare in modo nuovo per tornare a parlare e riconquistare se stesso.

Il suo esempio ci stimola, credo, a tener presente che nella relazione d’aiuto la via più facile è quasi sempre ostruita: c’è un intralcio che obbliga a continue deviazioni.

Di fronte al dolore, la teoria ammutolisce, la tecnica non soccorre e gli automatismi delle buone pratiche – quelle che ci vorrebbero capaci e vincenti, com’è il protagonista all’inizio del film – spesso saltano.

Per avvicinarsi a chi soffre occorre costruire ogni volta connessioni nuove, proprio come fa Alain. Tocca imboccare sentieri che talora si interrompono e avere il passo lento del viandante, che alla fine è sicuro proprio perché mette in conto l’inciampo. Forse nell’ultima trincea che protegge chi si sente solo e ha paura il viandante ha qualche speranza di entrare. Il guerriero armato delle sue competenze sicuramente resta fuori.

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