UN SANO BAGNO DI UMILTÀ PUÒ GUARIRCI DAI MORSI DELL’INVIDIA

Fa star male l’invidia dell’altrui fortuna. Ci possiamo salvare convincendoci di avere una nostra classifica, né primi né ultimi


Dio convocò al suo cospetto due persone, un avaro e un invidioso. Disse loro: «Che uno di voi esprima un desiderio, io lo esaudirò e darò all’altro il doppio di ciò che viene chiesto».
L’avaro rimase in silenzio immaginando di poter guadagnare di più se l’altro avesse chiesto.
L’invidioso allora pensò e ripensò… poi disse a Dio: «Toglimi un occhio».

Penso che questa breve storia rappresenti in modo magistrale il meccanismo dell’invidia, ovvero l’attenzione costante all’altro come persona da limitare, contenere, danneggiare.
Già, tutto ruota intorno al tema del danno… In una società sovraesposta, che ostenta senza pudore ricchezze, età, vigore fisico, sembra che il benessere dell’altro sia un elemento teso a danneggiare noi stessi. L’altro in qualche modo lo fa apposta, ostenta, ci dimostra la sua superiorità.

Meccanismo insidioso, l’invidia contiene il più pericoloso dei pensieri, ovvero la tentazione di pensarsi al centro di una dimensione autoriferita in cui sappiamo solo esperire la nostra mancanza, tutto quello che non abbiamo o che non siamo.

Certo questo può essere visto dai guru del marketing come uno dei motori dell’economia, della corsa ai consumi e senza dubbio lo è, se pensiamo per esempio a quelli che vengono definiti i beni di consumo “emozionali”.

Da qui arriva il potere rassicurante di quel sentirci a posto perché abbiamo quello che gli altri hanno, perché soddisfiamo i nostri appetiti.
Ma subito questo equilibrio diventa instabile e richiede una compensazione, allora siamo sempre lì a guardare fuori della finestra, a sognare vite non nostre immaginando che chi le vive le abbia rubate proprio a noi, che sia lui l’ostacolo alla nostra soddisfazione, l’impedimento al nostro naturale e gioioso cammino.

Dall’intimità pudica delle stanze di consultazione alla vetrina sacrilega dei social urliamo spesso in modo affannoso e senza ritegno la nostra rabbia, la nostra voglia di risarcimento, diretta in ultima istanza proprio a Dio, reo di non aver distribuito in modo equo talenti, bellezza, denaro…

Come uscire allora da tutto questo? Come non rimanere per sempre avvinghiati alla fame di avere ciò che gli altri hanno e noi non si ha?
Forse in una dimensione esistenziale che tutti i giorni ci chiede di saltare qualche centimetro più in alto, di perdere ancora qualche chilo, forse in questa corsa senza fine la via di uscita è quella di dichiarare la nostra impotenza e di fare i conti con la nostra maledettamente umana fragilità.

Così come il tradimento non può che liberarci dal mondo perfetto del perbenismo borghese che ci annichilirebbe, l’impotenza si rivela un utile ed efficace grimaldello che finisce con il sottrarsi alla “passione triste” dell’invidia.

«Non contate su di me, non ce la faccio, non chiedetemi di correre che non ne ho le forze…»
Nel sottrarci alle aspettative globali potremmo finalmente riappropriarci della nostra determinazione, della nostra volontà, in ultima analisi della nostra identità profonda, carnale, che nel reclamarci non all’altezza ci restituisce la cifra completa di chi siamo.
Scopriremo allora che nella vita non si arriva primi o ultimi ma che la classifica prevede infinite posizioni, una delle quali ci appartiene.
Scopriremo infine che il nostro benessere consiste non nella abilità irraggiungibile del non cadere, ma nel non farsi troppo male e soprattutto nel saperci rimettere in piedi.

®️già pubblicato su: www.fuoritestata.it 


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