“Papà mi puoi dare una tua foto?”
“Va bene, ma per cosa ti serve?”
“Così quando muori ti posso rivedere…”
(Dialogo tra un padre ed un figlio di 4 anni)
È opinione diffusa che il tema delle cure palliative, più in generale, del fine vita stia gradualmente invadendo più aree di riflessione e per certi versi si stia imponendo in diversi campi con un’eco che va ben oltre il suo essere appannaggio degli addetti ai lavori.
Scandalosa ed al contempo maledettamente naturale, la fine dell’esistenza è stata gradualmente marginalizzata nell’era della tecnica come datità ultima ed in qualche modo non meritevole di grandi considerazioni.
In ultima analisi il problema della morte per lungo tempo è rimasto un “che cosa” e non un “come”, ovvero un dato incontrovertibile e non un processo graduale con tutte le sue implicazioni.
Da circa 8 anni mi sto occupando di fine vita dal punto di vista degli operatori che si occupano di persone che stanno percorrendo “l’ultimo miglio”, la fase finale della propria esistenza.
A mio modo di vedere occuparsi di questa realtà impegna il personale (medici, infermieri, operatori sanitari, psicologi) in una difficile lettura del cosa si sta facendo, delle difficoltà che ci si appresta ad affrontare.
Il primo aspetto che investe massicciamente il personale sanitario è quello della rinuncia… già, occorre rinunciare a quello che superficialmente sembrerebbe essere la missione principale, ovvero guarire.
Nella trasformazione del curare in accompagnare cominciamo a dover rileggere il nostro mestiere, a svestire la nostra funzione di quegli aspetti eroici, onnipotenti… nella radura in cui si percorre l’ultimo miglio San Giorgio non sconfigge il Drago anzi, nel riconoscere la disparità delle forze in campo, sommessamente e con prudenza cerca disperatamente una via di uscita in cui almeno ci sia la possibilità di ottenere l’onore delle armi, come quegli ufficiali che si accontentano di tenere alla cintura la pistola fino all’ultimo per lasciare il campo almeno con la schiena dritta.
In fin dei conti non si tratta di tradire il proprio mandato ma, al contrario di rileggerlo in una dimensione di maggior autenticità, di ripensare a quel primo non nuocere come imprescindibile, come elemento fondante non solo della relazione di cura ma anche dell’esistenza umana.
Quindi, come si dice nelle arti marziali il personale è chiamato a crescere togliendo fino a riappropriarsi di quell’elemento umano che solo fonda la relazione e solo può essere il legame possibile tra chi deve andare e chi rimane.
Il vissuto quindi che riscontro da sempre nei colleghi che si occupano in prima linea di fine vita è quindi di profonda solitudine; è una solitudine che sicuramente arriva dal morente come anticipazione dell’esperienza di fine vita ma al contempo parte anche da noi, da quella sensazione che da sempre ci portiamo con noi, da quell’ombra che ontologicamente ci appartiene e perseguita al contempo.
Dall’esperienza della solitudine di chi rimane però a mio avviso abbiamo la possibilità di riscattarci, di trovare il modo di costruire spazi condivisi in cui possiamo produrre pensiero e riflessione su questo tema che da sempre ci appartiene.
Nel far tornare la morte nelle case, nel parlare e partecipare alla comunità che muore ed accetta il comune destino, forse riusciremo a pensarci meno perfetti, meno invincibili ma fatti di carne sangue e nervi.
In fondo si tratta proprio di questo, tornare ad essere umani.