Come si affronta e come si è affrontata nei secoli che ci hanno preceduto? Quando è successo che da fatto della vita è diventata malattia da curare? Avere a che fare con la sofferenza non è una scelta, ma il come farlo, come trattarla e considerarla, dipende da noi
Nel corso del tempo lo abbiamo chiamato in mille modi: male di vivere, dolore, melanconia, nostalgia, acedia… La fatica di stare al mondo arriva dalla notte dei tempi, da quando l’uomo comprende che il vivere e il morire non sono semplicemente legati ai fatti del mondo.
Allo stesso modo in cui i bambini piccoli a un certo punto fanno esperienza della morte come di qualcosa che non è legato a qualche contingenza sfortunata (per esempio un incidente, una malattia) ma ci appartiene per il solo fatto di essere vivi, nella notte dei tempi l’annuncio della morte come necessità (in filosofia si chiama così il fatto che le cose arrivano anche se non le vogliamo) ha instillato nel profondo degli uomini due semi che nel tempo hanno prodotto le due dimensioni in cui siamo da sempre situati: la trascendenza, ovvero l’idea che non si esaurisca tutto con la vita terrena, e la disperazione dell’essere in qualche modo consegnati al nulla. Da lì arriva il soffrire, il non sapere dove andare, il sentirsi persi e senza senso… Che fare, dunque?
Alcuni di noi, i più, ne fanno una questione in cui si riesce a dimenticare la grande Verità (la necessità del morire) e la si riduce a qualcosa di affrontabile e gestibile. Allora il problema della necessità della fine dell’esistenza si allontana, quasi evapora in un mondo in cui quello che ci rimane sono paure, ansie, apprensioni: pagare il mutuo, stare attenti ai pericoli, fare bene il lavoro, essere apprezzati, affidabili, ecc.
Altri di noi, molto più ridotti nel numero, meno pratichi nell’autoinganno del non pensare alla “cosa brutta”, finiscono con l’essere intrappolati nella domanda che non ha una risposta e allora per sopravvivere, per rimanere in ogni caso nel mondo della vita, finiscono con lo smarrire la ragione, producono mondi altri, solo lontanamente simili a quello che condividiamo, mondi abitati da creature invisibili e talvolta inquietanti che provocano in loro un sofferenza al limite della sopportazione.
È sempre stato così, fin dalla notte dei tempi; nel medioevo si metteva fuori delle case un sacco senza fondo per riuscire a trattenere gli spiriti cattivi, questo rimedio veniva chiamato follum, da lì nasce la parola follia come luogo in cui il maligno viene imprigionato.
Quando arriva la psichiatria – roba di questi ultimi 150 anni, peraltro – chiamiamo il primo mondo (quello dei tanti) nevrosi, mentre il secondo, quello dei folli… psicosi.
Dunque, a un certo punto, abbiamo deciso che la sofferenza umana, da esistenziale e ontologica, divenga una malattia, un fatto sanitario non più maledettamente umano.
Da allora il mondo si è divaricato in artisti, letterati, filosofi da un lato, e medici e scienziati dall’altro; per alcuni la sofferenza è rimasta quella di sempre, da rappresentare con l’arte, da sentire e far sentire con la musica, il teatro, la pittura, la scultura, la filosofia. Per altri invece non si tratta di questo, si tratta di cercare il dente dell’ingranaggio che è saltato, il bug che blocca la macchina; si tratta di intervenire sul corpo, sull’organo che non funziona, tagliare, shockare, ablare, riprogrammare, ricondizionare.
Ovviamente non ritengo di essere una di quelle persone che negano l’evidenza di quanto possano essere utili farmaci, terapie, talvolta persino pratiche più invasive; il punto però è un altro. È quello di superare questa divaricazione e arrivare a considerare il fatto della sofferenza umana come un fatto essenzialmente culturale in cui le punte di maggiore sofferenza possano essere curate dalla medicina, senza perdere però la nazionalità culturale che fa ricadere qualsiasi forma di fatica e di dolore dell’uomo nell’umano.