Quel collo di bottiglia da cui non riusciamo a uscire

Un’illustrazione che raffigura, davanti a uno sfondo verde-azzurro, la sagoma azzurra di un profilo umano rivolto verso sinistra, con una finestra nella testa, leggermente aperta, da cui fuoriescono svolazzando sei farfalle arancioni, bianche e nere.

Le strettoie della mente, quelle che a volte noi stessi costruiamo, sono quelle più difficili da cui liberarsi. Trappole che ci bloccano, impedendoci di vivere una vita piena e creativa. Per superarle, a volte, serve cambiare il punto di osservazione e uscire dal seminato

Racconta il filosofo: le vecchie trappole per mosche erano costituite da una bottiglia con un collo molto lungo, che, largo all’imboccatura, si restringeva via via, sempre più. Le mosche si avventuravano facilmente all’interno della bottiglia ma, arrivate in fondo al collo stretto, rimanevano intrappolate. Questo accadeva perché «la stretta estremità inferiore, attraverso cui la mosca si era introdotta nella bottiglia, non solo non sembrava la via d’uscita, ma appariva come una pericolosa strettoia ancora più difficile da affrontare rispetto alla situazione in cui la mosca si trovava intrappolata».

Sono sempre stata incuriosita da questa metafora e dalle strettoie della mente, quelle che a volte noi stessi costruiamo: trappole che ci bloccano, impedendoci di vivere una vita piena e creativa.

Un esempio fra i tanti: siamo a Caivano, in una periferia napoletana tra le più difficili per degrado, criminalità, abbandono da parte dello Stato (Parco Verde a Caivano è una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa). Così difficile da meritare un decreto apposito, il “decreto Caivano”, che inasprisce le pene nei casi di spaccio e dispone l’arresto in flagranza, nel tentativo di reprimere fenomeni criminali tra i giovanissimi e di ridurre la dispersione scolastica.

Domenico Iannacone, noto giornalista di inchiesta, ha dedicato due puntate delle sue trasmissioni, I dieci comandamenti e Che ci faccio qui, a un istituto scolastico professionale, il Francesco Morano, che si trova proprio nel cuore di Caivano. Qui una preside coraggiosa quanto tenace, insieme a un pool di professori, porta avanti la strada della legalità, dell’impegno, del contrasto all’abbandono scolastico. «Il primo anno mi sono data alle pulizie», dichiara la preside Eugenia Carfora, che ha rimesso in piedi un luogo, ridandogli la dignità di scuola, facendo cacciare, per esempio, il custode che abusivamente occupava un’intera ala dell’istituto. Poi, azione dopo azione, ha riportato i ragazzi in classe, che è diventata trampolino di lancio verso il lavoro, quello vero.

La prima cosa che ho pensato, ascoltando le parole della preside, incalzata amorevolmente da Iannacone, è stato un banale quanto semplice: «Se ce l’ha fatta lei a Caivano!».

Sì, perché una delle più pericolose trappole della mente è proprio quel «non si può far niente», o «si è sempre fatto così», o ancora «sono cose più grandi di me». Queste sono alcune delle strettoie del collo finale della bottiglia, che rendono apparentemente pericoloso inoltrarsi verso la via d’uscita.

Ho appena concluso un progetto dedicato proprio alla dispersione scolastica in un istituto tecnico nel milanese (non a Caivano) e sì, lo devo ammettere, non è stato facile scontrarsi con la burocrazia, l’inefficienza, la mancanza di comunicazione e, a volte, lo scoraggiamento (legittimo, anche) di ragazzi e insegnanti. Porterei, però, un fatto su tutti, che spesso mi trovo a citare: un giorno, dopo due mesi dall’inizio del progetto, per una cosa e per un’altra (il telefono senza fili che genera incomprensioni e malintesi), ci sono voluti 40 minuti per far scendere nella mia aula un ragazzo che incontravo per la prima volta. Lui, un quattordicenne timido e impacciato, alla fine è arrivato. «Ci sono rimasti sette minuti», gli ho detto, «ti va di dirmi chi sei nel tempo che abbiamo?».  Fu il nostro primo strano incontro, durato sette minuti, e oggi quel ragazzo, che era sulla via della bocciatura, porta a casa l’anno con un solo debito a settembre.

Penso che sia stata questa l’essenza di quel lavoro (condiviso con altri validi colleghi, con gli insegnanti che ci hanno creduto e, soprattutto, con i ragazzi stessi): aver voglia di incontrarsi, anche in mezzo ai casini e alle fatiche di ognuno dei soggetti coinvolti. Mettersi, poi, in ascolto, ora dopo ora, riattivando piano piano le risorse. E ancora, la cosa più importante di tutte: farli sentire attesi («io sarò qui, il lunedì, e ti aspetto»), per offrire, nei limiti del possibile, una base sicura a cui tornare per raccontarsi, un luogo protetto in cui fosse permesso reinventarsi e riscrivere una storia, anche partendo da un «non so se ce la posso fare», uno spazio senza giudizi che pesano e inchiodano, a volte, sul fondo della bottiglia.

L’immagine che ho io dell’uscita dalla trappola mi arriva proprio dalle parole di Eugenia Carfora, la preside di Caivano, in risposta alla domanda di Iannacone: «Che narrazione è stata fatta fino ad adesso di questo posto?»; «Questo posto è il posto degli orrori, il posto in cui tutti quanti devono abbattere le case, devono andare via… cioè, sempre distruzione. Difficilmente sento una bella parola positiva».

In alcune circostanze sembra davvero impossibile poterla nominare quella parola positiva, di rinascita, di ristrutturazione. Quella parola che crea un terreno fertile da cui partire (perché, nella distruzione non c’è ripartenza). Eppure… se ce l’ha fatta lei, a Caivano!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *