Adulti distanti e punitivi, quelli del passato. Adulti vicini e spaventati, quelli del presente. Senza la giusta distanza (e la giusta vicinanza) è la relazione con i nostri figli e i nostri alunni che rischiamo di perdere
Sarà capitato anche a voi vedere in TV le riprese di una superficie perfettamente pulita analizzata al microscopio: più ci avviciniamo e più appaiono imperfezioni; quella che era una superficie liscia e perfettamente piana appare ora come un susseguirsi di avvallamenti, salite e discese, piene di organismi, di sporcizia, granelli che al microscopio appaiono come massi. A volte, mi dico, è tutta una questione di prospettiva, di distanze, di velocità.
Lo stesso accade a parer mio per i fatti dell’anima, per le problematiche che genericamente definiamo psicologiche. Provengo da una generazione in cui, per esempio, esistevano bambini capricciosi, alunni sfaticati, adolescenti insolenti e “fancazzisti”. Certo probabilmente non era maturata una visione più competente delle fatiche delle persone, come se vedessimo queste cose troppo da lontano, come se dalla prospettiva da cui osservavamo l’oggetto non potessimo essere altro che giudicanti, insofferenti e forse un poco superficiali.
Ora le cose sono radicalmente cambiate, sembra, soprattutto per noi psicologi, che finalmente sia arrivato il momento in cui viene rivalutata la nostra funzione, nobilitata e ritenuta ormai indispensabile. Da inutili astrologi siamo divenuti preziosi consiglieri, personal trainer dell’anima di tutti. Da tecnici a cui ci si rivolge solo se si è matti, siamo ormai figure consultate per ogni piega dell’anima, per ogni scelta.
Non vorrei fare il guastafeste o, ancor peggio, l’umarell che critica i lavori del cantiere sotto casa, ma questa improvvisa indispensabilità della psicologia a mio modo di vedere racchiude insidie che per certi versi sono ancora peggiori.
Siamo sicuri che in ogni ambiente di lavoro, la scuola, l’azienda, occorra avere uno psicologo?
Recentemente, durante un incontro con ragazzi e professori in un liceo milanese, sono emerse per esempio, da parte di alcuni docenti, le difficoltà e la fatica ad accogliere, ascoltare i pensieri, i dolori, le paure di alcuni allievi che con la scuola stanno avendo una relazione faticosa. Da lì la richiesta degli insegnanti di poter inviare gli alunni a uno psicologo che possa sostenere tale peso emotivo.
E allora vedo il salto: da un mondo moraleggiante fatto di voglia o non voglia, di gente forte e gente debole, ora abbiamo aperto a un mondo sempre più rivolto verso un esterno che in realtà appare come la proiezione di una dimensione ombelicale, di chi crede che i problemi che ha siano assolutamente prioritari, irrisolvibili da solo, e da dare in appalto allo specialista.
Come direbbe il teologo siamo passati «dal Dominio di Dio, al Dominio di Io».
Insegnanti che appaltano l’ascolto ai tecnici, genitori che mandano i figli dallo psicologo perché incapaci di tollerare l’ansia dell’incertezza, dell’attesa che crescano e trovino la loro strada. Allora, tornando alla metafora iniziale, mi sembra che ora osserviamo i fenomeni con una eccessiva vicinanza, il che ci impedisce di darci tempo, di fare spazio, di rallentare, di fare esperienza del dolore, della rabbia, dell’amore.
Ascoltare non è roba nostra, paghiamo qualcuno che ascolti per noi. Che ci piaccia o meno invece le cose non stanno così: prima di invocare lo specialista forse sarebbe meglio chiederci se siamo capaci di tollerare le emozioni che ci contagiano dalla relazione con l’altro; in fin dei conti magari lo psicologo potrebbe servire, ma non a nostro figlio o ai nostri alunni.