Passiamo la vita a cercare di essere perfetti, ci sforziamo di corrispondere a un’idea di perfezione che – in realtà – poco ha a che fare con l’essere umano. Forse vale la pena guardarla per tempo, la vitalità dell’imperfezione
Un uomo cammina su una strada di campagna, sulle spalle un bilanciere con un secchio per lato. Da giorni sta trasportando l’acqua dal pozzo verso il campo arido presso il quale ha deciso di coltivare. I secchi però sono bucati e perdono acqua, perciò il vecchio quando arriva al campo ha perso quasi la metà del prezioso liquido, ma lui sembra sereno, sembra non occuparsi della fatica, della perdita, di questa sfida improba.
Un giovane uomo lo osserva, impietosito gli dice: «Vecchio non vedi che stai perdendo la maggior parte dell’acqua? Non ti accorgi che la tua fatica in parte va sprecata?». Lui si gira, lo guarda come i vecchi guardano i giovani, con quella lentezza del pensiero e dell’azione di chi forse non è divenuto vecchio per niente, e dice: «Hai visto lungo la strada? Sulla destra e sulla sinistra del mio passaggio è spuntata l’erba, sono cresciuti i fiori: nulla va sprecato».
Non so voi, ma a sentire questa storia io sono rimasto attonito e, dopo uno stordimento iniziale, sono arrivate un’altra volta le parole di Faber: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
Tutta la vita a cercare di essere perfetti, a cercare di essere precisi, di non lasciare indietro nulla, e poi? E poi invece quando si arriva al secondo tempo di partita, proprio in zona Cesarini, sembra che non sia questo il punto, che il senso di tutto questo agitarci, di tutta questa spasmodica attenzione debba risiedere nel percorso e non nel punto di approdo.
Mentre scrivo questa cosa penso per esempio alla musica, a come il segno lo lascia chi ha il coraggio di lasciare il sudore, il sangue, le sbavature, che sono poi la firma di ciascuno di noi. A far le note perfette ed esatte alla fine tutti si riesce, ma la differenza lo fa tutto quello che lasci per terra, un rumore, una imperfezione che apre a mondi possibili, il sole che entra dalla crepa del muro, il difetto del vetro che ci fa scoprire la lente.
Sarebbe bello, davvero bello, se i percorsi scolastici, quelli lavorativi, quelli terapeutici, fossero alla fine aiutare le persone ad appropriarsi delle proprie ferite, delle proprie crepe, a guardare alla strada oltre che al punto di arrivo, a resistere alla seduzione sempre presente di aderire al perfetto mondo del «si fa così» per approdare alla vitalità dell’imperfezione, al passo malfermo dell’ubriaco, all’odore acre del letame che, non dobbiamo dimenticarlo mai, fa nascere un fiore.