Il tradimento della fiducia rappresenta una ferita difficile da rimarginare e che spesso provoca escalation di azioni, reazioni, risentimenti e accuse. Ma quanto è importante, nelle relazioni, avere a che fare anche col nostro “lato che tradisce”?
Samuele, 8 anni, classe terza elementare, frequenta una scuola ritenuta di ottimo livello in una città di provincia del Nord Italia. Un giorno torna a casa e racconta ai genitori quanto è accaduto in classe quella mattina. La maestra, mentre interroga, incarica i bambini non interrogati di stare a turno alla lavagna e scrivere i nomi dei bambini che non si comportano bene. Samuele è un bambino un po’ timido, a volte impacciato e oggetto di prese in giro da parte di alcuni coetanei: quel giorno tocca a lui fare il “compito” assegnato dalla maestra. Scrive il nome, tra gli altri, del proprio compagno di banco. Quando torna al suo posto, il compagno lo picchia con calci e qualche pugno.
Nella seconda elementare della stessa scuola, le cose vanno diversamente (o no?): il maestro chiede ai bambini di passare direttamente alla “pratica” del richiamo, con un pizzicotto al braccio, o uno scappellotto alla nuca (la scelta è libera). Finché una mattina, a seguito dell’esecuzione di questo compito, due vicini di banco litigano e vengono, tutti e due, messi in castigo.
Che cosa accade? Potremmo dire che l’adulto delega parte del proprio ruolo di gestione dell’aula al bambino, che impara sulla propria pelle a fare il delatore, altrimenti detto spione. Il sentimento di rabbia (i litigi fra bambini) che emerge da un tale tradimento (quello del maestro), a me pare quasi legittimo, o almeno una conseguenza scontata. I genitori fuori da scuola, nel frattempo, sorridono (ma non la mamma e il papà di Samuele!).
A proposito di tradimento, mi viene in mente la storiella ebraica, che apre un bel saggio di James Hillman sul tema: un padre, che vuole aiutare il figlio ad essere più coraggioso, gli chiede di saltare dai gradini di una scalinata, promettendogli che lo afferrerà ogni volta, per non farlo cadere. Il primo salto dal secondo gradino ha un buon esito, il padre prende il figlio; il secondo salto dal terzo gradino non va peggio: la paura aumenta, è vero, ma il padre rimane al suo posto, per consentire al figlio di fronteggiare la nuova difficoltà. I due proseguono per un po’. A un certo punto, arrivato piuttosto in alto, il figlio salta e il padre si tira indietro, lasciandolo cadere tra lacrime e sangue. “Perché?” chiede il ragazzino. “Così impari, mai fidarti di un ebreo, neanche se è tuo padre!”. Al di là del richiamo apparentemente antisemita della barzelletta (tanto più che a quanto riporta l’autore si tratta proprio di una storiella ebraica), questa ci dice piuttosto qualcosa in merito al tradimento.
La rottura della promessa, lo squarcio nella fiducia nei confronti di chi dovrebbe proteggerci e accoglierci ci riporta con questo episodio, brutalmente, a un dato di fatto:
l’uomo è traditore, ha un lato oscuro inaffidabile e, a volte, la “parola – la parola data – non è più forte della vita” (James Hillman).
Della vita, parti oscure comprese, potremmo aggiungere.
Constatato questo e ampliando lo sguardo dalla scuola al quotidiano assistiamo spesso e volentieri, dopo il tradimento, a una serie di vendette in un’escalation, per esempio, di carte bollate e di ricorsi a tribunali e giudici. Risentimenti, accuse, recriminazioni che rinnovano il dolore per il colpo ricevuto e portano ad allontanarsi gli uni dagli altri, vittime e carnefici. Tutto questo però ha anche lo scopo, forse, di non dimenticare l’offesa che chiede disperatamente una forma di riconoscimento/risarcimento.
La storiella apre, mi pare, a un’altra possibilità: c’è un traditore che si riconosce tale, addirittura un padre davanti al figlio, ammettendo di non essere in grado di mantenere la parola data. Questo, dal mio punto di vista, porta traditi e traditori su un terreno in cui sia possibile un incontro, all’interno della ferita subìta o inferta. Penso che solo lì una riparazione autentica sia possibile.
In fondo io credo che se non ci riconosciamo anche fallibili, anche inaffidabili, manchevoli anche d’amore, rischiamo di far male a un altro, o generare moti di rabbia e rancore, senza renderci davvero conto di ciò che accade. Ci si può confondere dentro un gioco (giochiamo a “siamo tutti delatori”), perdere di vista ruoli e funzioni (la funzione educativa, per esempio) e scannarsi a vicenda, senza davvero aver compreso il perché.
Ma allora, ci si può fidare, oppure no? E io, sono o non sono affidabile?
Da parte mia, prometto che… ci proverò!
già pubblicato su @fuoritestata