Siamo sempre più abituati a cercare l’utilità, la praticità, quel che serve. Ma se ben guardiamo, è proprio nell’inutilità che possiamo trovare lo spazio della nostra presenza più vera. Come ci insegnano i bambini e gli anziani.
“Questa riflessione è inutile, non porta a niente…”; “Quante volte me lo hai già detto? Non ha senso che tu ripeta sempre le stesse cose…”
Quante volte capita di sentire questo genere di discorsi, situazioni in cui ciascuno di noi sembra invaso improvvisamente dalla necessità di concretezza, dalla necessità di sentire un senso di utilità. I giovani la reclamano come necessità assoluta di poter fare, di poter incidere sul mondo della vita; le persone come me, chiamiamoli “diversamente giovani”, reclamano l’urgenza assoluta di non perdere tempo, di non perdersi in chiacchiere.
Da questa irrefrenabile voglia di serietà e di utilità sembrano essere invece avulse due categorie: i bambini e gli anziani. Per i primi si può dire che abbiano la cittadinanza onoraria nel regno dell’inutile e del ripetitivo, sembrano essere assolutamente inconsapevoli di tale perdita di “efficacia” che il loro agire produce. Abitano il tempo come cittadini disinteressati del suo scorrere, che sembra sempre istantaneo e scollegato, in un qui e ora che garantisce loro una immersione totale in un mondo in cui tutto non è assolutamente importante, urgente, mortalmente utile.
Gli anziani invece, abili nuotatori del tempo e dello spazio, spesso amano ripercorrere luoghi frequentati in passato, vedendo nella circolarità del tempo una buona occasione per lenire quell’ansia del “non-ancora”, di heideggeriana memoria, che li vedrebbe spinti a ogni istante sempre più verso il baratro o, per dirlo sempre con le parole del filosofo, verso l’abisso (che poi i tedeschi chiamano abgrund, ovvero senza fondo). Io, pur essendo ormai quasi totalmente milanese, rimango comunque sempre un ragazzo di campagna, e spesso osservo l’atteggiamento di “noi” milanesi quaranta-cinquantenni, quelli che hanno in mano le leve del vapore, quelli che fanno discorsi seri e utili, che non sopportano i bambini perché sono troppo vivaci (forse solo perché sono rimasti vivi) e ancor peggio detestano gli anziani, che sui mezzi vogliono parlare del tempo, della politica, in realtà però nulla di serio e utile, solo per perdere tempo, per parlare.
Che ci piaccia o meno, invece, gli estremi della nostra esistenza, l’alpha e l’omega, l’infanzia e la vecchiaia, sono proprio quei periodi della vita che riescono maggiormente a sfuggire dalla negazione nevrotica dell’angoscia di vivere e di morire, proprio per la loro permanenza nell’inutile; a pensarci bene infatti l’inutile rappresenta proprio chi siamo nella profondità dell’essere.
La mia casa non differisce affatto dalla casa di chiunque di voi in quanto alla categoria dell’utile; casa mia ha una porta di ingresso, delle pareti, sedie, finestre, letti, bagni, tavoli, poltrone…, tutte le case le hanno. Il colore della porta, il pavimento in legno, le tendine alla finestra, la raccolta di palle che negli anni ho composto, i bonsai sulla finestra, le calamite sulla porta del frigo, fiori, piante… Tutto questo inutile è ciò che mi distingue da tutti gli altri, tutto questo inutile comprese le mie passioni (che spesso fanno spendere soldi anziché guadagnarne), tutti i discorsi che ripeto sempre e che condivido con gli amici e con i compagni di vita; tutto questo è ciò che sono, ciò che siamo.
Allora tutte le volte che un amico mi racconta una storia che ho già sentito tante volte e che in fondo anche lui sa che mi ha già raccontato, tutte le volte che io faccio finta di non conoscerla e me la faccio raccontare di nuovo, lasciando sullo sfondo la supposta inutilità del contenuto già noto, ho l’impressione che l’incontro abbia l’opportunità di divenire davvero speciale e profondo, oserei dire sacro, perché l’unica dimensione a cui ci si propone di aprirsi è quella della presenza, e questo è davvero tanto, e utile.
già pubblicato su @Fuoritestata