Sembra essere sempre più difficile avere a che fare con il lutto, il dolore e la morte. Come se non potessero far parte delle nostre vite, come se non ci fosse spazio per contattare quella parte di noi stessi
Don… Don… Don…
Tocchi di campana, quella grossa, isolati tra loro e distanziati da sei inesorabili secondi. Nove tocchi di campana, poi una sequenza più ravvicinata di due oppure tre tocchi in successione. Già dai primi tocchi la gente, gli anziani soprattutto escono di casa, vanno in strada e chiedono: “Chi è?”, allora una ridda di supposizioni: “Potrebbe essere il marito della Gina, è un po’ di tempo che sta male”; ma poi: “No, ha fatto due tocchi, è una donna, deve essere la suocera del Pietro, ieri l’avevano portata via…”
Così, ancora oggi, nel mio paese natio, 3000 anime nella bassa Valsesia, viene annunciata la morte di un membro della comunità: per pochi istanti la vita si ferma, l’aria diventa rarefatta e poi si ricomincia con il quotidiano.
Dunque, la morte gode di un tempo dedicato, di un tempo che impone la propria priorità; non solo, in ogni paese vi sono degli angoli dedicati all’affissione dei manifesti funebri che informano circa il nome, il cognome, l’età di colui che non c’è più e alcune indicazioni sulle esequie.
Una delle prime cose che notai quando iniziai la mia fase di vita da cittadino metropolitano fu proprio la mancanza di tutto questo. Certo la spiegazione più semplice era ed è ancora oggi il fatto che con tutta quella gente, con tutto quel correre, non si può mica interrompere lo spettacolo. “The show must go on”, dunque, tirare dritto senza se e senza ma, si direbbe.
Al solito la cosa è più complessa di quanto sembra; allora pensando a questo argomento mi vengono in mente un sacco di cose, per esempio quella volta in cui alcune mamme della scuola elementare di mio figlio protestarono perché la spiegazione della Pasqua della maestra di religione era in qualche modo troppo cruda, troppo triste, alcune la definivano gotica. Forse sarebbe stato meglio dire che Gesù Cristo era morto di polmonite, che Ponzio Pilato aveva dovuto obbedire a ordini superiori… insomma una versione più edibile della morte, meno pesante e triste.
Andando avanti sullo stesso alveo della riflessione a me sembra che in fondo il punto non sia quello di non aver tempo per riflettere, ma al contrario quello di essere sempre così in fuga rispetto alla riflessione che si fa in modo di non lasciare spazio alcuno che possa fare emergere tristezza, noia, dolore. Quante volte, e in questi ultimi anni sempre più, mi sono trovato a dover aiutare le persone a fare i conti con dolori che potremmo definire fisiologici del vivere: lutti, separazioni, fallimenti, normali fatiche della vita vissute però come assolutamente inaccettabili, fino a credere che il dolore stesso sia la malattia da curare e non la misura della fatica a elaborare le curve e le salite della vita.
Abbiamo perversamente praticato l’arte del “chiodo schiaccia chiodo”, “con una bella dormita passa tutto”, “faccio un bel viaggio così mi passa e non ci penso più” e, quando tutto questo “fare” non funziona, quando il dolore rimane e non ne vuole sapere di andare via, quando la via è parlare con lui e trovare un modo di stare insieme, allora vuol dire che siamo malati.
Che ci piaccia o meno, il percorso di crescita è una strada faticosa, fatta di separazione e individuazione. Il dolore non è un ostacolo alla vita ma al contrario, come la fatica, il conflitto, sono essi stessi declinazione del vivere, passaggi, portali attraverso cui avviene la trasformazione e la ridefinizione di ciò che siamo, di ciò che la vita ci fa essere e di come riusciamo la sera a portare a casa la sensazione di non avere sprecato la giornata.
già pubblicato su @fuoritestata