Sempre più spesso si cerca di dare un nome al proprio malessere, per sentirsi come gli altri ma anche per avere un “protocollo di cura” certo e incontrovertibile da seguire
“Sono stato per 6 mesi in una relazione con una donna narcisista patologica…”
“Soffro di dipendenza affettiva”
“Ho un disturbo post traumatico da abbandono multiplo…”
Sono solo alcune delle affermazioni che mi sono sentito dire dalle persone che bussano alla mia porta chiedendo aiuto. Per una strana bizzarria del destino o forse per un chiaro sintomo di modernità, spesso la parte più complessa, più intricata e rischiosa, quella della diagnosi, l’hanno già assolta loro. Fino a qualche tempo fa si riferivano alle loro problematiche con espressioni molto confuse e generiche, normalmente in una forma non clinica. Chiedevano a quelli come me di dare loro una definizione, di mettere l’etichetta sul barattolo della marmellata.
Ora invece sembrano avere già una convinzione piuttosto netta di ciò di cui soffrono, ne conoscono le cause, le implicazioni, le strategie terapeutiche, gli effetti secondari, ecc. A volte ho come l’impressione di non essere il primo ad essere consultato, anzi, a ben guardare ho come l’impressione di non essere per nulla chiamato a una consultazione, semmai a una ratifica, a una perizia confermativa.
Allora la mia mente torna agli studi che per la verità non ho mai definitivamente abbandonato, e mi viene alla memoria uno strano personaggio, polacco naturalizzato californiano, Paul Watslawitz e il suo costruzionismo. Lui e il gruppo di studiosi che faceva riferimento a lui, la celebre scuola di Palo Alto, negli anni 70-80 del secolo scorso fecero nascere un appoggio il cui architrave era il concetto che la verità assoluta non esista e che ciascuno di noi sia in qualche modo detentore di una sua verità, appunto “costruita”.
“La credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni”,
recita una sua bella citazione. Ecco, a mio modo di vedere, nella società dell’iperconnessione e della saturazione informativa, ognuno si può costruire, con una buona dose di apparente contezza, la propria verità. La persona che io vedo in seduta, dunque, si è già rivolta alla Rete per cercare conferma che ci siano altri “casi” come il suo, da lì è entrata nella coorte di quelli che hanno avuto la stessa esperienza e, per una serie di successive approssimazioni, ha finalmente trovato la SUA verità.
Intendiamoci, io non penso di dover esprimere un parere né tecnico né morale, rispetto a questo tipo di “indagini”, anzi a me sembra che in ultima analisi ognuno debba cercare di difendersi nel modo migliore possibile anche se magari non sempre funzionale, rispetto a esperienze sgradevoli o dolorose che hanno scatenato in lui o in lei una crisi. La parte che mi preoccupa molto è invece la risposta che chi fa il mio mestiere a volte si trova a dare.
Sempre più spesso devo infatti fare i conti con approcci molto specialistici, super-specialistici direi, che promettono il trattamento di una sindrome con precisione chirurgica, in una ricerca sempre più spasmodica del protocollo di intervento, della strategia miracolosa, costituendo di fatto un accoppiamento perfetto con l’esigenza di verità e certezza del cliente. Che il cliente in crisi voglia avere una strada sicura, passi certi e collaudati, per riuscire a uscire dalla selva oscura mi sembra comprensibile, che trovi alcuni di noi che rinforzino l’identità di malattia suggerendo dunque che basti seguire il protocollo per uscirne senza grandi sforzi, e magari con un numero di incontri preordinato e definito dal modello, mi sembra nella migliore delle ipotesi avventato e superficiale.
Allora tutto diventa curiosamente e ironicamente paradossale. Che belli quei tempi dove avevamo ancora l’insicurezza di chi non conosce e la claudicanza di chi sa di camminare su terreni incerti; per forza dovevamo ascoltare, cercare di capire e sperare di comprendere. Ora, sommersi dai modelli, avendo sostituito le mappe con i satelliti Gps rischiamo di dimenticare che il motore dell’ascolto è proprio la presunzione di non sapere, di rinunciare alla parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe come direbbe Eugenio Montale. Se riusciremo a resistere a questa seduzione allora forse ritroveremo il coraggio dell’essere cauti, insicuri ma presenti.
già pubblicato su @fuoritestata.it