Le feste sono ormai alle spalle. Ma è utile provare a chiederci come possiamo cercare di riscattare la solitudine, nelle persone che incrociano la nostra traiettoria di vita o di lavoro, quando la sua ombra diventa troppo lunga e ingombrante
“Compagnia… i nostri colloqui mi lasciano le tracce di una compagnia per l’anima”.
Poco tempo fa ricevo questo messaggio da una persona che seguo come counselor. È uno dei momenti in cui chi fa il mio lavoro si sente confermato nella sua scelta, e prova gioia. Tre settimane più tardi, un’altra cliente mi porta in dono un libro. Il tema è lo stesso, capovolto però, e il paradosso della citazione in prima pagina – “la solitudine è un posto affollato” –, a pochi giorni dalla Vigilia di Natale, mi scava una galleria in fondo al cuore. Quest’anno, infatti, la tavola di Natale ha contato in famiglia un coperto in meno. Il vuoto, il respiro dell’assenza, hanno avvolto il loro velo invisibile attorno all’atmosfera dei giorni brevi di dicembre, e io mi sono vista nella schiera che ben conosce chiunque si occupa di cura.
Lo sappiamo: proprio quando il luccichio delle feste vorrebbe tutti vestiti con l’abito migliore, in tanti sentono sulla pelle solo qualche straccio logoro ad attutire l’urto della vita. Per loro – per chi ha subito una perdita o lotta per non smarrire se stesso, per chi attraversa la notte senza stelle della malattia o si trova fuori asse rispetto alla prospettiva di un’esistenza che sembra ancora chiedere (nel 2023!) il rispetto di precise tappe sociali per dirsi compiuta e davvero accettata – la solitudine diventa una cappa feroce. Non la si può camuffare. Non la si riesce a diluire nelle incombenze del tempo feriale. È lì a ricordarti che non sei invitato al brindisi e che hai le scarpe troppo pesanti, come scriveva Safran Foer, per unirti agli altri nelle danze.
In questi passaggi, la solitudine sembra negare il suo volto benefico, quello che custodisce il segreto della nostra identità (solo rinvia etimologicamente a “unico”), e ci mostra soprattutto una faccia dolente. Cattiva nel significato originario di “prigioniera”: la faccia dell’isolamento, della separazione, dell’esclusione.
Le feste sono ormai alle spalle. Penso tuttavia che sia un esercizio utile provare a chiederci come possiamo cercare di riscattare la solitudine, nelle persone che incrociano la nostra traiettoria di vita o di lavoro, quando la sua ombra diventa troppo lunga e ingombrante. Quali sono le strade da sondare se vogliamo offrire una “compagnia per l’anima” ogni volta che in qualcuno il dolore emotivo sembra occludere i pori attraverso i quali l’esperienza della solitudine riesce a essere anche vettore di crescita, tutore di resilienza, incubatrice di decisioni e di senso? Che sentieri possiamo calcare, in punta di piedi, per dimostrare vicinanza e insieme rispettare il riserbo, il pudore, di chi soffre e si sente solo?
Il primo aiuto credo arrivi dal silenzio. Il silenzio contrapposto al mutismo. Sartre, fine psicologo nei suoi romanzi come nei testi di filosofia, notava che “quando un essere umano vive solo non sa nemmeno più che cosa sia raccontare: il verosimile scompare insieme con gli amici, ed è raro che un uomo solo abbia voglia di ridere”.
La solitudine maligna spesso comporta proprio questo: l’eclissi della parola che è, insieme al sorriso, una delle cifre più superficiali ed evidenti in grado di distinguere l’uomo dall’animale. Si resta muti, convinti che non possa esserci risposta in grado di far circolare calore nella cortina ghiacciata che si interpone tra noi e il mondo.
Si resta muti, nella sofferenza, nella rabbia, nel buio, nel risentimento. Si resta muti forse anche perché le parole altrui, sgorgate troppo in fretta, diventano goffe e imprecise, quando la solitudine morde. Allontanano invece di avvicinare. Faticano a conciliare verità e discrezione. Dicono il bisogno (o l’ansia) di chi parla, piuttosto che incontrare la ferita della persona che si sente sprofondare nel cono della solitudine e non intravede appigli per la risalita.
Variante e controcanto del mutismo, il nostro silenzio credo possa essere invece una figura umile e attiva del comunicare. L’ABC della relazione d’aiuto lo ricorda molto chiaramente, del resto. Il silenzio ospita l’attesa che è, talvolta, l’anticamera della speranza. Esprime comprensione e rende palpabile la prossimità. Soprattutto, il silenzio concede tempo. A chi si sente solo, per sondare l’affidabilità del suo interlocutore. Ma anche a chi offre soccorso, per dosare la partecipazione e sintonizzarsi sulle emozioni che covano sotto la brace apparentemente spenta del dialogo, alla ricerca di un punto di raccordo dove la parola dell’altro riesca a rinascere sotto forma di racconto e cominciare così a popolare il deserto interiore. In fondo, le persone che incontriamo – nei contesti di cura come nella vita di tutti i giorni – chiedono questo: uno spazio sicuro, anche piccolissimo, in cui aprire la propria storia, decidendo di volta in volta quale rigo condividere e cosa tenere per sé.
Se allora, tornando a Sartre, la solitudine esautora la propensione a raccontarsi e toglie la voglia di ridere, il nostro silenzio quieto dovrebbe forse diventare una via perché qualcuno recuperi la propria capacità narrativa, quale forma di cura e primo germe della relazione: di sé con sé e di sé con un altro che ascolta. A contatto con la nostra presenza gentile, chi soffre e subisce la solitudine arriverebbe dunque a ricomporre, e poi forse anche a esporre, quel che dentro appare frantumato o indicibile.
Eccolo qui, un proposito fresco e sano per il nuovo anno: modellare il nostro silenzio affinché si trasformi in grembo accogliente nel quale l’altro possa sentirsi abbastanza protetto da depositare brani scelti della propria verità. Sapendo bene che la solitudine è un posto affollato, e che anche noi lo frequentiamo, più spesso forse di quanto vorremmo.
Semplicemente Grazie!
Ringrazio io per la lettura e l’attenzione!