Preoccupazione e inquietudine ci accompagnano sempre e da sempre, ma tendiamo ad associarle a qualcosa di concreto: ci preoccupiamo per il futuro, la salute, i soldi, i figli o di tutto quello che viviamo in quel momento. Che ci sia un altro modo per vivere il quotidiano?
A volte accade che a esser seduti su una montagna non si abbia la consapevolezza di essere seduti così in alto, a volte le cose più importanti ci sfuggono di mano e andiamo a rincorrere il vento. Spesso, parlando con persone, amici, colleghi, gente alla fermata del tram si respira un’aria di curiosa inquietudine: “Ha sentito, signora, di quel ragazzo che stava tornando a casa ed è stato aggredito?”, “Eh già, non si può più stare tranquilli di questi tempi…”
“Di questi tempi” è una frase che diciamo da sempre, perché ogni età ha la sua pena, le sue preoccupazioni e noi sempre lì, preoccupati e inquieti a cercare di portare a casa la pelle. In altre parole, ansiosi. Un po’ per mestiere e un po’ per curiosità personale cerco da sempre di capire cosa bolle in pentola, che cosa in fondo agita tutti.
La filosofia esistenzialista, Heidegger per primo, l’ansia l’ha chiamata Cura (che è premura ma anche preoccupazione), ovvero inquietudine esistenziale, riprendendo il mito latino di Cura (200 a.C.), che con gli altri dei plasmò l’uomo e ottenne di possederlo durante tutta la sua vita. Dal mito e dall’esistenzialismo quel che traiamo è il fatto che da sempre siamo posseduti da questa agitazione, dall’inquietudine, dunque non solleciti o preoccupati per qualcosa in particolare ma si direbbe ontologicamente inquieti.
Tutti noi siamo convinti di essere preoccupati per qualche cosa, per il futuro, per la salute, per i soldi. Ignoriamo che invece la preoccupazione, l’ansia ci possiede, ovvero è la materia di cui siamo fatti. Ritengo che sia molto utile riflettere sull’ontologia dell’ansia per poterla assumere come un dato costitutivo della nostra esistenza. Se fossimo tutti d’accordo su questo, allora arriveremmo a capire che l’ansia è semplicemente il segnale che siamo vivi e che cerchiamo incessantemente di tenere insieme gli opposti, le ambivalenze, le paure e le gioie della vita.
Assumendo l’ansia come nostra compagna di viaggio, cercando di fare amicizia con la paura di ogni giorno, cercando di tollerarla ed al contempo comprenderla, allora si può immaginare un altro modo di vivere la sfida della quotidianità.
Assumere e accogliere la fatica dell’inquietudine quotidiana ci apre a un mondo che sfugge alla consueta punteggiatura buono contro cattivo, giusto contro sbagliato. Tutto diventa utile e al contempo degno di riflessione, di approfondimento, di comprensione del senso delle cose. Superando l’antica dicotomia si va oltre e ci si appropria della radice delle cose, di tutte quelle cose invisibili che però sono alla base di tutto.
Pensiamo ad esempio alla più tradizionale delle dicotomie, ovvero a quella tra ottimismo e pessimismo, la famosa storia del bicchiere, mezzo pieno o mezzo vuoto.
Se rimaniamo sul piano dell’enunciato ci dividiamo tra ottimisti (quelli del “mezzo pieno”) e pessimisti (“quelli del mezzo vuoto”) ma se andiamo oltre, se cerchiamo di dissociarci da come la questione viene posta, allora scopriamo che il vuoto – sempre lui il vuoto – non esiste; il vuoto è un pieno di aria, ovvero della sostanza invisibile ma necessaria per la vita. Dunque, dalla rinuncia al pensare a ciò che manca, dal delirante guardare all’ideale di una pienezza bulimica e insostenibile ci portiamo a casa la necessità di stare con quello che c’è, di rimanere in un vuoto che in fondo è il luogo da dove veniamo e nel quale sappiamo da sempre di dover andare.