Le penne cancellabili e l’impossibilità di parlare di sé

Cancellare l’errore significa forse non prenderne veramente coscienza, mentre l’apprendimento è – in quanto tale – fatto di inciampi. Perché è così difficile nella nostra società accettare l’errore o tollerare il fallimento? Quali sono le conseguenze, a volte tragiche, di questa stortura e quali, invece, le radici nell’infanzia?

Non ho mai sopportato, da quando la mia prima figlia frequentava le scuole primarie, le penne cancellabili. E anche oggi, che tocca al mio secondo, mal le tollero. E non è solo una questione di costi, anche se questa magica penna può arrivare a costare 7 volte tanto una più onesta e modesta biro. Ma no, non è questo. Ogni volta che osservo mio figlio fare i compiti, l’accesso alla gommina che si trova all’estremità del tappo, solleva in me un moto di irritazione. Forse perché ha fatto un errore? No! È proprio il fatto che l’errore venga rimosso, nascosto alla vista, sovrascritto: è questo che trovo insensato. Cosa c’è di male nel tirare una riga sopra o sotto parola sbagliata? Ne risulterebbe una pagina troppo disordinata? È quindi una questione estetica o di ordine mentale: io non ho mai capito.

Ho piuttosto da sempre l’impressione che la gomma-cancella-errori impedisca di prendere davvero coscienza dello sbaglio, che nasconda, invece di mettere in luce, i legittimi inciampi dell’apprendimento e che, in fondo, insegni a dire piccole innocue bugie, per dare vita ad una pagina perfetta, che si ripete sempre uguale a se stessa, dimenticandosi di mostrare i progressi e le fatiche di ciascuno.

Pier Aldo Rovatti, il filosofo, parlando di gioco, ci mette in guardia dal vincere a tutti i costi: tutti sappiamo cosa vuol dire vincere, ma lui si chiede se siamo in grado di saperperdere. E questo sapere significa, dal mio punto di vista, non solo fare esperienza del fallimento, ma anche avere cura di non cancellarlo, sostituendolo con un’esperienza di vittoria, magari costruita ad hoc da un adulto premuroso. Credo che significhi anche – lo so che è difficilissimo – tollerare il sentimento di vergogna che ne deriva, in una società che continuamente ci guarda, ci segue, esprime consenso e dissenso alla velocità di un click. 

Saper perdere, non da ultimo, significa tornare a ricordarci che l’evoluzione per ciascuno è fatta di pieni e di vuoti, di risorse ma anche di limiti, di frenate, di arresti, di dolore. In definitiva è fatta di tempo e non di singoli momenti, vissuti come assoluti, sul podio (o giù da esso).

Mi viene in mente tutto questo se penso ai fatti di cronaca di questi giorni, fatti che richiamano altri episodi simili. Si tratta di casi tutt’altro che isolati: giovani studenti che, prossimi alla laurea, rivelano in maniera drammatica la realtà delle cose, ossia che nessuna proclamazione è davvero in programma. Una verità, a quel punto, così intollerabile che l’unica soluzione è togliersi la vita. 

Queste storie mettono in evidenza l’immane fatica di molti ragazzi che si trovano di fronte all’impossibilità di parlare di sé, dolore e fallimenti  compresi, proprio per quel senso di vergogna che li attanaglia, bloccandoli o spingendoli al ritiro (che non significa soltanto chiudersi nella propria stanza).

Ciò che più mi sorprende scoprire, anche quando ascolto i vissuti dei miei più giovani pazienti, è che spesso i ragazzi rinunciano a parlare per non deludere i genitori e non caricare sulle loro spalle ulteriori pesi. Bambini che salvano adulti, figli che prendono in braccio genitori, in un contesto sociale che chiede a tutti di essere “top”: è così, io penso, che ci si ritrova soli, in un ruolo non sentito come proprio, nel disperato, quanto irrealistico tentativo di cancellare con una gomma gli errori, per riscrivere da capo la storia. 

Alla fine, forse, anche il costo c’entra in tutto questo: un prezzo 7 volte più alto da pagare, per evitare una pagina che pare scabrosa, piena di pasticci e scarabocchi.

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