Quando si affaccia la fatica di vivere la chiave è il cambiare direzione, volgere lo sguardo altrove. Per ritrovare il (proprio) senso
Una ripartenza difficile questa dopo l’estate. Almeno è quello che mi sembra di cogliere nelle parole delle persone che seguo, soprattutto giovanissimi. La narrazione ruota intorno alla fatica di vivere, al non sentire più un senso nelle cose che si fanno tutti i giorni (formarsi, studiare, imparare, relazionarsi). In alcuni casi, aleggia il fantasma di farla finita. Parole dure da ascoltare. Stati d’animo da custodire.
Ripensando al senso del mio lavoro, anche di fronte a questi pensieri che trovano voce nello spazio di seduta, ho ben presente che lo scopo generale di un lavoro terapeutico è aiutare la persona a ripristinare due dimensioni fondamentali per la propria vita, amare e lavorare. Ma è un terzo aspetto che maggiormente attira la mia attenzione e lo dirò con le parole che Sigmund Freud pare abbia usato, così come riportato da chi ha lavorato con lui: “…e tornare a divertirsi naturalmente!”.
Io credo che forse occorra partire da qui. Dal divertimento. Ma cosa c’entra con il vuoto, con il senso della vita, che sembra perduto, e che vuol dire tornare a divertirsi? Se risaliamo all’etimologia della parola, iniziamo a trovare una prima risposta: di-vertire, letteralmente volgere altrove, cambiare direzione.
Di fronte alle parole dei miei pazienti, profondamente demotivati o disorientati, non penso abbia senso modificare la loro idea, estirpandone le radici, o contrapponendosi con soluzioni più o meno fantasiose. Come, allora, volgere lo sguardo, per riaccendere il desiderio?
Non a caso utilizzo il termine desiderio, caro a Jacques Lacan. In questi giorni mi sono imbattuta in un’intervista ad una sua ex paziente ebrea, Susanne Hommel: a distanza di molti anni dalla fine della sua analisi, racconta ciò che un giorno è accaduto in seduta. Susanne sta confidando al suo analista che tutte le mattine alle 5 si sveglia angosciata e lo associa al fatto che proprio alle 5 del mattino la Gestapo faceva le retate, cercando gli Ebrei da incarcerare e deportare. E qui, l’analista fa una straordinaria operazione di cambio di direzione! Si alza di scatto e fa una tenera carezza sul viso di Susanne: Lacan fa quello che la lingua francese definisce “geste à peau” (gesto sulla pelle), trasformando con un gioco di parole la Ge-sta-po in gest-à-peau (la pronuncia francese di peau è appunto “po”).
Il dolore per quel dramma rimane nella vita di Susanne, ma a questo si aggiunge un radicale quanto inatteso cambio di segno (da negativo in positivo), un allargamento dello sguardo: da quel momento, all’orrore si affianca l’infinita dolcezza di una carezza, “un appello all’umanità”, come lei stessa lo definisce.
Mi chiedo, per tornare alle narrazioni che ascolto in queste settimane, se questa possa essere una buona indicazione: non strappare via, forzatamente, i ragazzi dai loro pensieri più cupi e disperati, che accarezzano la morte, ma stare lì con loro in ascolto, pensare insieme pensieri impensabili, e proprio da qui iniziare ad intravedere cos’altro c’è, dove altro si può volgere lo sguardo, quali altri vie il pensiero può percorrere.
Più che uno strappo, una carezza.