Si può misurare la sofferenza?

Una crisi d’angoscia, la richiesta di un ricovero e la risposta – distratta – del sistema. Cosa significa valutare un sintomo? Cosa succede a una persona che soffre e sente di non essere presa sul serio?

L’altra sera un ragazzo che seguiamo con la Fondazione ha chiamato l’operatore che ha come riferimento perché stava male: Marco (il nome è di fantasia) era angosciato, uno stato di angoscia importante che non riusciva a gestire, ha chiesto di essere ricoverato perché consapevole di avere bisogno di un contenimento importante. Erano le 23, insieme all’operatore vanno al pronto soccorso e aspettano che venga chiamato il medico psichiatra reperibile che potesse valutare la situazione.

All’arrivo del medico, Marco appariva sicuramente più calmo e meno esplosivo dell’arrivo, era accasciato su una sedia, in attesa. Il medico, vedendolo così, si è rivolto all’operatore che lo accompagnava ed era accanto a lui, senza rivolgere la parola a Marco (un po’ come fanno alcune mamme quando parlano dei loro bambini come se non fossero lì accanto a loro) e si lamentava della chiamata: “E voi mi chiamate per una situazione simile? Un conto se uno tira giù un mobile ma questo (!) è tranquillo…”. Marco, a quel punto, si alza e rovescia una scrivania. Verrà poi ricoverato in urgenza per una crisi clastica, uno dei quei momenti drammatici in cui il nostro dolore e la nostra angoscia ci portano a prendercela con gli oggetti, rompendoli. 

Spesso mi trovo a raccontare storie simili, sicuramente storie di una psichiatria non brillante e decisamente grottesca. Ma al di là del singolo caso, che può avere mille spiegazioni o risvolti, mi preme riflettere sulla questione, tutta clinica e molto complessa della valutazione.  

Nella clinica delle malattie mentali il mondo di chi ne soffre è un mondo in cui convivono gli opposti, fantasia e realtà, vita e morte, corpo e pensiero.

Una situazione complessa che impone a che si appresta alla valutazione un compito davvero arduo e una notevole assunzione di responsabilità. Essendo materia preminentemente medica ed essendo io psicologo ammetto che rischio di fare la figura del pensionato davanti ai cantieri stradali dando consigli non richiesti. 

A me pare di assistere talvolta a una difficoltà nel cogliere gli aspetti clinici che non hanno ancora un correlato di comportamento, quasi il nostro lavoro alla fine prendesse una forma investigativa, di ricerca di prove, di evidenze tali da giustificare al di là di ogni dubbio la misura che occorre prendere, di fatto colludendo con una dimensione difensiva che purtroppo è sempre più praticata in medicina.  Il punto su cui riflettere mi sembra essere invece, al di là della dialettica tra professionisti, di vitale importanza e riguardi a pieno titolo due aspetti della clinica: la relazione ed il rapporto fiduciario tra paziente e curante. 

Il concetto stesso di valutazione propone una dimensione paradossale dalla quale è difficile uscire, una situazione limite, di quelle dalle quali si esce sempre con le ossa rotte. Se devo valutare allora devo essere oggettivo e mi perdo la soggettività del Totalmente-altro-da-me, lo devo misurare, rappresentare su una scala, modellizzare… E’ qui che nascono discorsi del tipo: “Non è un VERO tentato suicidio ma solo un gesto dimostrativo”, oppure: “Il paziente non sta abbastanza male da poter disporre il ricovero”, ecc. 

Nel mondo psicotico questo viene spesso avvertito come un non essere preso sul serio, un non essere abbastanza deciso nella denuncia del proprio malessere ecc. Ne consegue una clinica attenta solo ai segnali forti, a chi grida di più, a chi mostra i muscoli, portando inevitabilmente chiunque a sposare questo linguaggio. 

Ritengo che invece occorra riportare tutto sul piano della relazione e della fiducia, esponendo anche noi stessi sicuramente a decisioni (e non valutazioni) che possono sporcare le mani, che possono farci apparire malfermi, emotivi, insicuri, tutte quelle cose che ti capitano quando decidi di ascoltare quel totalmente altro senza giudicare o voler essere nella verità.  D’altra parte, il Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo, lo dice chiaramente: “Solo il costruttore di bare può misurare gli umani”. 

2 commenti

  1. È un bell’articolo, pacato nei toni, però di forte denuncia per un sistema che è carente nella consapevolezza che si è umani sempre pure se nevrotici, psicotici o quant’altro. Il dolore muto, sordo forse viene negato da chi fa lo psicologo o lo psichiatra per lo stipendio anziché per amore. E allora spacchiamo tutto!
    Come a scuola del resto…

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