L’importanza di ascoltare quel che non c’è

Anche il battito del cuore, se ci pensiamo, fa una pausa per prendere “la rincorsa”. Tanto conta quello che, apparentemente, non c’è. Vale nelle nostre vite, vale nel lavoro dello psicologo e nell’ascolto dell’altro

Il cuore, il cuore col suo “tu-tum”, da sempre ci fa da colonna sonora. A pensarci bene però, ad ascoltare fino in fondo, il ritmo del cuore è ternario: se infatti udiamo distintamente i due battiti in sequenza, quello da ascoltare con attenzione è il non-battito che segue i due. Tempo in cui il cuore si riempie, prende la rincorsa e si prepara all’azione, tempo di recupero, tempo di espansione.

Dunque, già da subito, il cuore ci comanda di ascoltare ciò che non c’è, ci dice da sempre che nel silenzio si nasconde il segreto, che la musica è fatta anche di pause, per dirlo con Maurice Merleau-Ponty, che il visibile è condizione di possibilità dell’invisibile.  Questo sarebbe bello se tutti ce lo ricordassimo, a maggior ragione però direi che per quelli che come me hanno fatto dell’ascolto il proprio mestiere è cosa assolutamente imprescindibile.

In questo scorcio di secolo però, affollato da esperti delle evidenze, da gendarmi del visibile, quelli come noi appaiono poeti assonnati e deliranti, attaccati irrimediabilmente a tutto ciò che di meno serio è rimasto da vedere.  Noi che abbiamo passato più tempo a leggere romanzi che a compilare scale di comparazione, noi che in fin dei conti siamo più esperti di arte e di letteratura che di neuro-imaging, a noi rimane di difendere la base quando il nemico arriva da ciò che non vediamo.

“Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo…” ci dice il poeta, a ricordarci di non demordere, di non arrenderci alla stolidità dell’evidenza, di guardare lo sfondo e non solo la figura.  Intendiamoci: luci e ombre debbono convivere, e poi sarebbe troppo facile cedere alla polemica, farne una questione di chi ha capito e di chi non capisce.  Allora mi sembra che la radura che abitiamo, sicuramente meno sicura e chiara di quella abitata dal mondo dei “sobri”, contenga in fondo molta più umanità, sangue, gioia e dolore, di tante schede e cartelle cliniche e dal canto mio preferisco affermare come la penso io che cercare di aggredire l’altro lato della questione. 

Tanto per essere chiari però non occorre fare una battaglia contro la raccolta delle prove tanto cara anche a molti di noi, si tratta solo di trovare un modo per non attivare solo uno sguardo unico, di smetterla con il cercare solamente certezze e sicurezze. 

In fondo si tratta di riprendere un cammino senza grandi proclami, fatto di luci e di ombre e della certezza che là dove puntiamo una luce, produciamo un’ombra.

Nell’ontologia dell’ombra, dunque, si annida la possibilità di scorgere l’indefinito, il battito nascosto, il cammino impossibile ai più ma praticabile per alcuni. Io ne conosco di storie impossibili, storie che la psichiatria delle evidenze, quella delle diagnosi e delle prognosi, dei protocolli e delle scale, non ritengono possibili… la storia di F. che vive per vent’anni da sola in appartamento, con l’amico caro nell’armadio, col dottore che la sera le entra nel letto, coi carri armati che passano davanti casa…. Elfi, diavoli, fate, che costellano il suo mondo, quel mondo testardo che i farmaci non sono riusciti ad annientare e che in fondo fanno compagnia a tante persone che conducono quindi una vita non così diversa dalla nostra.

Pensando a tante di queste storie mi sembra che tutte le volte che abbiamo il coraggio di rinunciare all’annientamento della parte malata, tutte le volte che riusciamo a tenere insieme luci ed ombre, visibile e invisibile, allora molte cose ritenute impensabili divengono percorribili.  Certo occorre avere il coraggio di non essere troppo seri, in fondo si tratta solo di vivere, mica di capirci troppo. 

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