Viviamo in una realtà che ad ogni momento, per qualsiasi cosa, ci impone di schierarci, di stare di qua o di là, come si dice ora “senza se e senza ma”. Ma cosa perdiamo in questa polarizzazione tra bianco o nero? Forse più di quello che immaginiamo
“Si deve aspettare l’arrivo di un nuovo genere di filosofi… i filosofi del pericoloso ‘forse’ in ogni senso”. Così il grande Nietzsche in “Al di là del bene e del male”, sempre provocatoriamente dipinge, ancora una volta con precisione chirurgica, uno dei mali peggiori della nostra modernità, divenuto oggi sempre più attuale. Viviamo in una realtà che ad ogni momento, per qualsiasi cosa, ci impone di schierarci, di stare di qua o di là, come si dice ora “senza se e senza ma”.
A me sembra un po’ come il programma di “risparmio energia” che si attiva quando vogliamo che sul pc la batteria duri di più: automaticamente le prestazioni diminuiscono, la precisione e la sensibilità degli strumenti si riduce, a favore di una minor fatica e dunque di una più lunga durata della batteria. Effettivamente, vivendo sempre di corsa, non possiamo mica consentirci il lusso di stare lì a pensare per bene, a considerare tutto, a cercare di comprendere. Allora tutto diventa bianco o nero, tutto diventa un film western anni 50 in cui era chiaro chi fossero i cattivi e i buoni anzi, a bene guardare, i cattivi erano anche brutti e facevano cattivo odore, erano perversi, brutali, efferati. I buoni invece con quegli occhi blu che facevano pendant con la divisa, “occhi turchini e giacca uguale” come ci dice Faber, uccidevano sempre per motivi buoni anzi, a dire il vero, non erano neanche omicidi, era più una specie di disinfestazione la loro, una bonifica. Un po’ come quando si mettono le trappole per i topi.
È curioso come, gradualmente, il punto esclamativo abbia sostituito il più scomodo e per certi versi scandaloso punto di domanda e così, in tutta allegria, ci troviamo gettati nel mondo del “senza se e senza ma”, come quella barzelletta in cui viene diviso l’autobus: “Quelli davanti stupidi e quelli dietro cretini” e tu non hai che da scegliere.
Rispetto a questo vi metto a parte di una mia esperienza personale: sono stato intervistato un po’ di tempo fa su un Tg regionale per dare il mio contributo in merito alle conseguenze del lockdown sul benessere degli studenti e degli insegnanti a scuola. Comincio a rispondere alle domande: “Dal mio punto di vista…”, la giornalista mi interrompe e con comprensione materna, con fare esperto e paziente mi dice: “Non si dice ‘dal mio punto di vista’, questo disorienta, deve dire direttamente le cose…”. Io proseguo nella mia imperdonabile stolidità: “A mio parere, penso che,,.”, con paziente e comprensiva sicumera mi dice: “Dottore, dottore, così non diamo sicurezza!”. La faccio breve: finalmente, dopo un po’ di tentativi, l’intervista vide il suo compimento, tutta bella sicura e “pulita”, senza insicurezze. Guardandomi poi alcuni giorni dopo al tg, al netto della supposta soddisfazione di vedermi in tv, non mi sono riconosciuto per nulla, mentre gli amici e le persone che mi hanno visto mi hanno tributato grande stima. Così, nel mio piccolo, ho provato che cosa vuol dire non avere lo spazio e il tempo di poter trattenere le persone un secondo in più e di cercare di coinvolgerle nella difficile fatica del pensare.
Una di queste mattine, aprendo LinkedIn, uno di quei Social forse un po’ più seri di altri, vengo colpito dalla storia di una mamma che racconta del suo piccolino che, avendo ingoiato una biglia di metallo, l’ha fatta molto preoccupare, nonostante sia finito tutto bene. La cosa che mi ha colpito di più, però, è stato il fatto che la signora ha più volte comunicato all’intera comunità Social che il tutto avveniva mentre lei era a cena con un’amica e che se ne è occupato il papà del bambino, cosa che mi è parsa del tutto normale. Mi pone qualche dubbio però la sottolineatura orgogliosa e molto apprezzata dalla platea che la signora si dichiarava assolutamente scevra dal senso di colpa di non essere stata lì nel momento del bisogno, dichiarando il diritto di avere una vita autonoma rispetto alla cura del figlio ecc. Allora mi sembra che siamo, ancora una volta, di fronte alla logica del posizionamento binario: se mi sento in colpa sono prigioniera dello schema gender in cui le mamme debbono curare i figli, dunque orgogliosa di non sentirmi in colpa perché libera. A mio parere (!), in tutta questa narrativa si rischia di perdere l’umano, ovvero il fatto che il sentirsi in colpa è solamente un altro modo, delirante e onnipotente forse, dell’amare. Mi capita spesso di allontanarmi di casa e la mia paura peggiore è proprio quella che possa succedere qualcosa ai miei bimbi ed io non ci sia.
Provocatoriamente, dunque, come filosofo del pericoloso ‘forse’ proporrei l’adozione della “prudenza metodologica”. Prudenza, dunque, che non è sinonimo di insicurezza o di irrisolutezza. Prudenza vuol dire essere attenti a tutte le cose che ci capita di incontrare durante il cammino, tutti gli inciampi e le risalite, non solo il punto di arrivo. Certo, così facendo potrebbe diminuire considerevolmente il numero degli ululati, delle grida risolute dei duri, dando la voce a una sempre più insistente ridda di segnali deboli, magari meno certi ma portatori di colori e di possibilità nuove.
già pubblicato su @fuoritestata.it