Quando l’essere umano va in crisi non è come un bug, un errore di sistema da resettare. Non basta fare “spegni e riaccendi”, ma bisogna capire cosa dice, cosa comunica la crisi, da dove nasce e qual è il suo senso
Marcello Malpighi, medico filosofo, uno che forse avremmo potuto mettere sul nostro Almamatto, uno dei tanti che venne sedotto dall’illusione del meccanismo, dell’ingranaggio, del dente saltato.
Nel diciassettesimo secolo fonda una strana disciplina, la Iatromeccanica, in cui cerca di immaginare il corpo umano prima e poi, per estensione, anche i moti dell’anima come il prodotto di meccanismi, dai più elementari fino a quelli incredibilmente sofisticati.
Dunque, dice, tutto è meccanismo e là dove la metafora non tiene siamo solo in prossimità di un sistema infinitamente più complesso ma in fondo sempre sulla stessa scala. In questo, la mia mente va al film geniale di Scorsese “Hugo Cabret” e alla metafora dell’automa che prova sentimenti, di cui la letteratura fantascientifica da Hoyle ad Asimov è pervasa.
Certo, è una grandissima seduzione il poter spiegare finalmente tutto con la metafora dell’uomo macchina, del meccanismo e via discorrendo, reprimendo finalmente e definitivamente quel chiacchiericcio da romantici e spaesati, da cartomanti e astrologi, che è la riflessione psicologica, psicoanalitica, filosofica. Che bello! Finalmente si manda in pensione il “secondo me” lo “a mio parere” e tutte le menate emotive e contro-emotive che appaiono rispetto alla scienza del meccanismo come “flatus vocis” per dirla con Sant’Anselmo.
Seguendo questo ragionamento, dunque, la Crisi (Krisis) rappresenterebbe solamente un errore di sistema, un bug come direbbero i moderni programmatori e dunque va repressa il prima possibile, normalizzata, per portare finalmente il soggetto al silenzio e alla quiete, così cara alla scienza. Dopo alcuni giorni di rumore, frastuono, confusione, dunque il nostro paziente in crisi, come si fa coi computer, viene spento e riacceso e torna alla beata normalità.
Nessuno però si chiede che senso abbia avuto la crisi, come mai abbia preso quella direzione anziché un’altra, quale sia stato il suo portato comunicativo, che cosa abbia cercato di fare emergere.
Un guasto è un guasto, nulla di più, spegnere e riaccendere, riformattare.
Un recente Moni Ovadia in un intervento luminoso e pieno di lucida follia (un intervento sicuramente necessario di una normalizzazione) ha dichiarato che in fondo i matti sono quelli che hanno dato una svolta al mondo, che hanno visto di più, che sono andati a vedere là dove i “normali” non guardano, a osare là dove la ragione ci dice che è impossibile fare, consegnando o meglio restituendo alla follia la funzione che da sempre ha in sé, ovvero trovare il modo di danzare nel buio anziché brancolare o stare impietriti.
Allora perdonateci colleghi più seri che sognate un mondo senza inciampi e curve, una strada rettilinea e già tracciata, noi claudicanti parolai preferiamo continuare a pescare nel torbido, a vederci poco sentendo tanto e a pensare che la crisi, la vertigine, l’angoscia, le strettoie della vita non siano errori, malfunzionamenti ma parte di noi; ci appartengono come la notte appartiene al giorno, come il bambino all’anziano, la vita alla morte.
Restituire alla crisi quel significato originario che la vede come momento di scelta, decidere di darle voce e non di reprimerla, sarà un percorso complesso ma noi pensiamo ne valga proprio la pena anche se si sa la nostra voce è debole. E, in fondo, rimaniamo cartomanti e astrologi…
già pubblicato su @fuoritestata