La divisione di campo tra “buoni” (quelli che si vaccinano) e “cattivi” (la minoranza che non lo fa o quelli che, facendolo, avanzano dei dubbi) non giova a nessuno. Anzi, mi pare condivida la stessa debolezza di chi pretende la soluzione perfetta
Ce l’hai il green pass? È sornione il tono del collega, mentre attendiamo di essere ammessi a un evento. Rispondo divertita, ma sotto le parole ribolle una riflessione di altro segno.
Premetto che sono vaccinata, sostengo i vaccini e riconosco tutta la gravità della pandemia. Pure, coltivo più di un dubbio a proposito di come si sta affrontando l’onda lunga del Covid. Sto adottando la difesa psicotica della scissione? Forse. In redazione ci abbiamo scherzato su.
Di certo, a mio avviso, facciamo i conti oggi con un nuovo semaforo – il colore verde del Green Pass è un richiamo fin troppo ovvio – in mancanza di un preciso codice della strada a regolare il traffico. C’è un “lasciapassare”, introdotto ad agosto ed esteso progressivamente a tutti i luoghi della vita pubblica fino a includere il lavoro, e quindi a diventare uno strumento per vincere le ultime resistenze di chi non ha aderito alla campagna vaccinale. Il tutto senza intaccare nella forma la volontarietà della scelta, che sulla carta resta affidata alla libertà del singolo.
Qualcosa non torna. Meglio allora un vincolo chiaro: ben venga, come invoca qualcuno, il sigillo della Legge, con il suo dettato oggettivo. Un conto infatti è sapere di doversi sottoporre al vaccino anti-Covid 19 e avere la disposizione tutto sommato neutra che ha la maggior parte di noi quando porta il figlio a fare l’antitetanica: c’è una procedura a tutela della salute, che l’obbligo certifica come validata. Altro conto è sapersi liberi di decidere ed esserlo di diritto, ma sentirsi indotti a prenotare il proprio posto nell’hub di turno, perché senza l’iniezione diventano impraticabili gli snodi più semplici della vita. Oppure scegliere di vaccinarsi per schivare la condanna morale (non ti vaccini = sei un pericolo). Qui c’è una costrizione mascherata da opzione e il terreno non è neutro per niente: la minaccia del contagio, dalla Tragedia alla Bibbia – senza scomodare il Novecento – è il primo fattore di stigmatizzazione.
Se le cose stanno così, è dunque tempo che il codice paterno del confine intervenga a separare il figlio dalla madre. Un taglio netto oltre ogni manovra obliqua. Il virus va arginato. Il vaccino è l’arma migliore che abbiamo? Il vaccino diventi obbligatorio, come lo sono altri vaccini ormai accettati. Posso accogliere questa visione e con lei il registro paterno della legge. Aderirvi, però, implica conseguenze. La più ovvia: il padre è sovraordinato rispetto al figlio, ma la giustificazione di questa asimmetria è la responsabilità con cui egli assume su di sé i derivati di quello che impone. Fuor di metafora, sostenere e farsi promotore dell’obbligo vaccinale significa sopportarne l’eredità, ivi compreso il dissenso.
Forse è proprio questo il punto.
Oggi chi nutre qualche incertezza sul tema tende a essere bandito da un dibattito serio. Peggio, spesso è bollato come No Vax o Boh Vax. Controdipendente (bastian contrario rende meglio l’idea) o vittima del sequestro emotivo della paura. Incompetente o allineato a certa destra, oggi irrobustita – stando alla cronaca – da nuovi vigori. A me paiono polarità limitative. Etichette che fanno piazza pulita delle differenze e rischiano di derubricare a complottismo anche i sussulti di chi ha profonda cultura civica e vaccinale.
È vero, c’è bisogno di leggerezza dopo i mesi che abbiamo alle nostre spalle. Ma usarla per ridicolizzare le voci di studiosi che hanno dedicato la vita al pensiero, mentre rilevano alcune contraddizioni nella gestione pandemica, non è a mio avviso una pratica corretta. Assimilare queste voci, più o meno direttamente, alla protesta cieca di pochi (sul piano numerico, coloro che negano la gravità del virus o l’utilità del vaccino sono, proporzionalmente, un piccolo resto) è impresa da cui credo dovremmo guardarci. In primis voglio guardarmene io, che difendo l’ascolto come pilastro della relazione. Certo, ascoltare non significa dare cittadinanza né giustificare eventuali derive violente. Se però la pianta della violenza avesse la sua prima radice in una negazione aprioristica del confronto, in una prassi nebulosa che contraddice nei fatti ciò che predica nei principi, forse chi quella prassi l’ha decisa dovrebbe lasciarsi attraversare da qualche domanda.
Su Fuoritestata abbiamo parlato più volte del linguaggio: casa dell’Essere, secondo Heidegger e culla in cui si forma il pensare, con le categorie che ci permettono di accostare il mondo e gli altri. Proprio perché l’uomo è l’Essere dotato di parola, a venti mesi dall’esordio del Covid e smaltito il primo annebbiamento collettivo, ritengo che le parole vadano scelte, le argomentazioni soppesate, le sfumature cesellate. La divisione di campo tra “buoni” (quelli che si vaccinano) e “cattivi” (la minoranza che non lo fa o quelli che, facendolo, avanzano dei dubbi) non giova a nessuno. Anzi, mi pare condivida la stessa debolezza di chi pretende la soluzione perfetta. Di quanti, nel gergo della psicologia, non hanno integrato l’oggetto totale. Che è insieme buono e cattivo, come sappiamo.
La paura del vaccino, infine, cerca accoglienza. E forse ha qualche ragion d’essere, se solo riportiamo alla memoria le confusioni nelle notizie circolate e le peripezie del farmaco di AstraZeneca. Si può avere paura e mantenere al contempo la fiducia nella scienza. Anche qui, però, il discorso richiede articolazioni plurali.
Insomma, la faccenda è complessa. Forse l’introduzione dell’obbligo vaccinale (se ci sarà) concorrerà a semplificarla. Nel frattempo, valga il principio con cui nella relazione d’aiuto ci avviciniamo all’altro. Senza sradicarci, proviamo a guardare dal suo punto di vista, allarghiamo la prospettiva e dalla nostra posizione – che ha qualche competenza, ma nessuna superiorità d’esistenza – cerchiamo anche la sua verità.
Finalmente una riflessione sensata sull’argomento vaccini.
Grazie per la lettura.
Personalmente, sentivo l’esigenza di dar voce a sfumature e a risvolti della discussione che ho visto da tante parti sacrificati.