Non esiste comunicazione, né sviluppo, né crescita, senza un rapporto diretto tra attore e spettatore
Cos’è questo silenzio. Perché ve ne state lì seduti muti, come fantasmi. Perché non applaudite: eppure siete venuti qui per me. Il vostro silenzio è peggio degli schiamazzi: un attore ha bisogno del pubblico. Voi volete condannarmi ad essere un cadavere vivente! Prima mi ubriacate con i vostri applausi e poi mi biasimate, perché non sono rimasto sobrio. Mi innalzate su ai vertici della gloria, ma poi pretendete che non mi dia alla testa! Voi volete che io sia tutto fiamma, ali per librarmi sopra i cieli e trascinarvi su con me, ma nel contempo voi volete che io strisci sulla terra come un verme sulla sua bava. (Gigi Proietti interpreta Edmund Kean, di R. FitzSimmons)
Prima metà dell’Ottocento: Edmund Kean, l’attore irruente, collerico, istrionico e passionale – genio e sregolatezza come lo ha definito Alexander Dumas, coniando apposta per lui questa locuzione diventata poi nota – aveva con il suo pubblico una relazione complicata. Voleva esserne amato a tutti i costi e pretendeva che nessuno fosse amato quanto lui.
Nonostante l’eccesso che la figura di Kean lascia emergere, mi sono trovata a riflettere sulle caratteristiche di questa relazione e sulla sofferenza che la mancanza di uno dei due poli della relazione può provocare. Il pubblico è l’altro per l’attore, il musicista, il mago, il cantante, per chiunque abbia fatto del palcoscenico una dimensione importante nella propria vita.
Seguendo il pensiero di Jacques Lacan, quando afferma “Il desiderio dell’uomo trova il suo senso nel desiderio dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto desiderato, quanto perché il suo primo oggetto è di essere riconosciuto dall’altro”, a me pare che, nel corso dell’ultimo anno – anzi di più – ci troviamo di fronte ad una questione esistenziale (oltre che economica).
L’esigenza di un teatro vuoto è stata – e forse è ancora, di questo non discuto – un passaggio obbligato, rispetto a questo momento storico e al pericolo legato agli assembramenti. Tuttavia questo ha generato, io credo, un altro vuoto, quello della relazione, solo in parte recuperata dal reinventarsi dell’esperienza artistica e teatrale a distanza.
“Credo che quello che mi manca maggiormente – mi racconta Natascia Curci, attrice e co-fondatrice della compagnia teatrale Animanera (www.animanera.net) – è la relazione sensoriale, quella data di cinque sensi. Una relazione che inizia prima che si alzi il sipario: mentre senti l’adrenalina salire, dietro le quinte, ascolti il pubblico che entra in teatro, senti le voci, i rumori; poi piano piano le voci si abbassano, le luci si spengono, si fa silenzio, è buio in sala, si va in scena”. Gli spettatori, i cui sensi sono acuiti, grazie alla sapiente alchimia di luci, ombre, silenzi, rumori e suoni, permettono quello spazio in cui tutto può accadere e che mai si ripete uguale a se stesso.
Sempre Natascia Curci mi ricorda le parole di Grotowsky: “il teatro può esistere senza cerone, senza costumi e scenografie decorative, senza una zona separata di rappresentazione (il palcoscenico), senza effetti sonori e di luci. Non può invece esistere senza un rapporto diretto e palpabile, una comunione di vita fra l’attore e lo spettatore”.
Di cosa è fatta questa relazione? Riconoscimento reciproco, abbiamo detto in primo luogo con Lacan, ossia di quella unità originaria che permette la comunicazione, il dialogo (e questo vale anche più in generale nel teatro della vita). Senza questo scambio non ci sarebbe apprendimento, sviluppo, in definitiva non ci sarebbe crescita.
Un altro aspetto che caratterizza questa relazione sta nella catarsi, ossia nella purificazione dalle passioni dell’animo (così ci dice Aristotele a proposito della tragedia). Un ruolo curativo quindi è affidato al teatro, al palcoscenico, agli attori e alla possibilità di partecipare, da spettatori, immergendo se stessi nell’azione non mediata da uno schermo, ma viva davanti agli occhi e a cui si è presenti con i sensi. La catarsi si dà quindi nella presenza, nel sentire, nel partecipare a pochi passi dal palco.
La cura è data dal Noi, esattamente come accade in una relazione terapeutica, in cui ciò che conta non è quel che dici Tu e quel che rispondo Io, ma ciò che accade tra Noi nello spazio che si crea, spente le luci e i rumori di ciò che sta fuori dal setting. C’è bisogno di entrambe le dimensioni, perché “senza spettatore non posso dare direzione al mio personaggio”, mi dice Natascia.
Questa esperienza del Noi, nella presenza dei corpi che dialogano, non dobbiamo dimenticarla per causa di forza maggiore e ci auguriamo, attori e spettatori, di recuperarla al più presto.
già pubblicato su @fuoritestata.it