Va bene la prudenza , ma non perdiamo la misura della difesa

Il rischio di questi tempi è di cedere alle angosce che nella vita cosciente sono regolate dalla censura

Vi ricordate le code interminabili davanti ai supermercati? Sicuramente ricordiamo tutti quelle di marzo, ma ci sono anche quelle di un mese fa. Nel timore di un nuovo rigido lockdown è ripartita quella stessa psicosi: code interminabili all’ingresso dei supermercati, carrelli stracolmi, corsa alle scorte di beni di prima necessità.

Ancora, un paio di settimane fa, Napoli, diretta social: il presidente della Regione Campania ironizza sul desiderio di una bambina che piangendo dichiara di voler tornare a scuola. La definisce un organismo geneticamente modificato allattata al plutonio. Una battuta che di comico ha solo l’imbarazzante incapacità di lettura della realtà da parte del Governatore. 

Più di recente, a Milano, in coda, ancora un supermercato, episodio personale. Una signora carica la propria spesa sul rullo della cassa e vede arrivare una madre con due bambine. Quando sono ancora molto lontane, grida (sic!) “Stop”, accentuando il grido con la mano  aperta e il braccio teso in avanti. La guardo cercando di capire cosa è accaduto: niente, un avvertimento  perché rimangano a distanza. 

Che sta succedendo? Le notizie, non solo dalle pagine dei giornali, suonano assurde: a volte, sembra essersi perso il legame tra causa ed effetto. Certo, la situazione globale, complessa e complicata in cui ci troviamo, interroga ciascuno di noi, personalmente ed anche professionalmente: siamo alla ricerca di nuove soluzioni, misure straordinarie, che possano limitare i danni del virus. E se questo, da un lato, attiva il problem solving, la creatività e la nascita di strategie che fanno appello alla resilienza; da un altro punto di vista, sembrano lasciare campo aperto all’irrazionale. Azzarderò di più: ad una dimensione quasi onirica, intendendo quell’area “governata dall’affettività e strutturalmente svincolata dai principi che regolano il pensiero logico e l’orientamento nella realtà” (così parla del sogno Umberto Galimberti).

Alla minaccia di un’insidia, per molti versi, oscura e di fronte alla quale ci sentiamo a tratti impotenti, rispondiamo con la nostra parte oscura?

Irrompe sulla scena della nostra quotidianità ciò che solitamente abita i sogni: paranoie, angosce, spettri, ossia tutto quello che nella vita cosciente è regolato dalla censura, funzione che appunto impedisce ai contenuti inconsci inaccettabili di arrivare alla coscienza. 

Di questi tempi, i tempi del coronavirus, il confine non sempre tiene: ecco che allora, la prudenza diviene paura incontrollata (corse ai rifornimenti), l’ansia diviene un’aggressività smisurata nei confronti dell’altro (inviti alla delazione), la paranoia può trasformarsi in un incubo presente e attuale (l’untore! Dagli! Dagli! Dagli all’untore!).  

In fondo Eraclito, nel suo 89esimo frammento parla chiaro: “Coloro che sono desti hanno un mondo in comune, mentre tra i dormienti, ciascuno si volge ad un mondo privato”. Se è vero, che questa dimensione onirica è presente, i rischi sono, quindi, quelli di perdere di vista l’altro, le regole di inclusione e socialità, o ancora, di alzare barricate di solitudine ed eccessiva chiusura. E non ultimo: forse rischiamo di perdere di vista la misura. 

Nel sogno la misura non c’è, ma questa mancanza permette di metterci in connessione con la parte più profonda di noi, lati oscuri, paure, angosce, desideri più o meno nascosti. Durante la veglia, sembra invece importante, tanto più per quello che ci aspetta, tenere dritta la barra, evitare le derive fuori misura, interrogarsi, più che agitarsi, mantenere un senso critico, prima di aggredire e forse, in definitiva, accogliere di aver paura, per non trovarsi a riversarla sull’altro. 

Credo che occorra fare attenzione perché, per dirla con Manzoni, “la collera aspira a punire: […] le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi”.

Già pubblicato su @Fuoritestata.it

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